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Attraverso le culture… e oltre

Multietnico, multiculturale, interculturale, transculturale? Parole diverse, che sottintendono diverse visioni del rapporto fra la componente italiana e quella che solo schematicamente si può definire “straniera” delle chiese evangeliche, e in particolare battiste, in Italia. Ma anche parole che esprimono un’evoluzione concettuale, che negli ultimi anni ha accompagnato la profonda trasformazione di molte comunità non soltanto battiste, ma anche metodiste e valdesi.

Non si tratta soltanto di un tema di discussione, dunque, ma dell’essenza stessa della vita delle chiese: un fattore trasversale, che tocca ormai tutti gli aspetti della loro esistenza ‑ teologia, questioni etiche, liturgia, rapporti umani, solidarietà, giovani e bambini, formazione.

Eppure per la prima volta, è stato fatto notare, in Assemblea generale si è dedicata una serata di dibattito a questo tema. Sabato 29 ottobre si sono confrontati Cristina Arcidiacono, pastora e segretaria del Dipartimento di Teologia, Carmine Bianchi, pastore e segretario uscente Dipartimento Chiese Internazionali, mentre Massimiliano Pani, membro del Comitato Esecutivo, ha moderato il dibattito e condotto il lavoro in gruppi, nel pomeriggio del giorno successivo, dedicato proprio a questo tema.

Si è detto che, più che di multiculturalità, oggi dovremmo parlare di inter o transculturalità, a indicare una maggiore compenetrazione: il venire meno di “zone di rispetto”, come suggerito da Arcidiacono nella sua densa e profonda relazione, che presuppongono l’assottigliarsi della “distanza di sicurezza” che frapponiamo fra il “noi” e il “loro”.

Arcidiacono ha sottolineato la relatività, non il relativismo, della teologia: parlare di teologia significa parlare di cultura, e parlare di cultura significa calarsi in un mondo e in una società concreta, in cambiamento, molteplice. “Non esiste un cristianesimo chimicamente puro”, osserva Arcidiacono, quindi parlare di Dio non è mai neutrale, oggettivo: per questo Arcidiacono suggerisce di “uscire dal minestrone semantico della multi/inter/trans culturalità: parliamo piuttosto di rispetto, conflitto, immutabilità e cambiamento”. Rispetto, in questo caso, appunto in una concezione “architettonica”: nell’area di rispetto non si costruisce nulla, può essere un buon punto di partenza, non di arrivo. Superata l’ottica della separazione, ci troviamo in un contesto di contaminazione in cui “naturalmente” scoppiano i conflitti: ma questo non è negativo, è il segno di un forte interesse comune, l’importante è come viene gestito il conflitto, che va visto non come occasione di scontro personale, ma di migliore conoscenza di sé e degli altri.

 

Indubbiamente questo confronto porta con sé degli aspetti problematici, lo si è detto nel corso della serata ma anche durante la giornata, affrontando il complesso tema delle convenzioni con chiese straniere e il loro ingresso nell’ordinamento battista.

Diverse comunità, spesso molto piccole, di provenienza diversa (Corea, Filippine, Ghana, Stati Uniti, Brasile, solo per citare le più recenti), nate spontaneamente da gruppi di credenti o come missione, chiedono di sottoscrivere una convenzione con l’Ucebi (Unione delle chiese evangeliche battiste in Italia) della durata di due anni, rinnovabile. Nella loro richiesta si trovano motivazioni diverse, tra cui non è secondaria la ricerca di garanzie, giuridiche ed economiche, offerte da una chiesa con un’Intesa con lo Stato (in un paese ancora carente in materia di legge sulla libertà religiosa), importante per queste comunità composte in gran parte da immigrati.

 

Negli ultimi 27 anni (cioè da quanto, nel 1992, si è cominciato a parlare di Realtà multietnica, come riferisce un’ampia sezione della Relazione del Comitato Esecutivo dell’Ucebi) più di 40 chiese sono entrate a fare parte dell’ordinamento battista a partire da convenzioni, che in altri casi sono rimaste tali, in altre si sono tradotte in recessioni, più o meno dolorose, con decisioni di comune accordo o unilateralmente da queste comunità Le ragioni sono state diverse, dall’esaurimento del numero dei membri, al disaccordo con alcune posizioni teologiche prese dall’Ucebi soprattutto per quanto riguarda il ministero femminile, la bioetica, l’omosessualità.

L’entrata e l’uscita di queste chiese dall’Unione battista suggerisce un’idea di dinamismo (non va dimenticato che la stessa chiesa battista italiana nasce da una missione interculturale!) ma fa emergere anche alcuni elementi di criticità di un dibattito ormai ventennale.

Nell’assemblea generale del 2002 si proponeva la creazione di un Dipartimento Esteri, che si traduceva nel 2008 con l’introduzione del Dipartimento Chiese Internazionali (Icd). 

L’esperienza quasi decennale del Dipartimento è stata rievocata dal pastore Carmine Bianchi nelle sue luci e nelle sue ombre nella serata di sabato.

Bianchi ha presentato una visione inconsueta, parlando del rischio del paternalismo e del complesso di superiorità di chi è abituato a dare, ma non a ricevere, e non si aspetta che gli “ospiti”, diventati cittadini, vogliono esercitare il diritto-dovere dell’ospitalità. Entriamo in crisi con l’idea che dopo aver dato, possiamo anche ricevere. Siamo abituati a offrire un contesto in cui inserirsi e adattarsi, senza pensare che la chiesa è la casa di tutti, ed è necessario che “tutti rinuncino a qualche cosa affinché tutti guadagnino qualche cosa”.

Indubbiamente questo percorso contiene molti ostacoli e spine, hanno evidenziato diversi interventi nel corso del dibattito: come essere accoglienti con chi è respingente, inclusivi con chi è escludente (soprattutto verso il ministero femminile o le persone omosessuali)? Forse che la contrapposizione non è tanto quella fra chiese italiane ed etniche, ma fra chiese conservatrici e chiese liberali; una contrapposizione non culturale o etnica, ma teologica?

Forse l’unica soluzione è quella prospettata dal presidente del CE uscente, pastore Raffaele Volpe: agire incontrare gli altri, sbagliare, trovare altre soluzioni… vivere con serenità, fino in fondo, questa opportunità.

Foto Pietro Romeo