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Un giorno a Lampedusa, tra memoria e corridoi sicuri

«Avremmo potuto esserci anche noi là sotto»: non riesce a trattenere le lacrime Waad quando, in visita al cimitero, incontra le tombe di coloro che sono morti nel Mediterraneo. Una manciata, rispetto all’entità delle perdite. Tombe senza nome, croci nella terra, corpi che hanno perso nel mare insieme alla vita la propria identità.

Siamo a Lampedusa, è il 3 ottobre 2016. Tre anni fa, l’ennesimo naufragio, a pochi metri dalla costa. Quasi quattrocento migranti morti, si legge nei giornali. Chiamiamoli pure persone. Vive e piene di speranza all’idea di una vita migliore. Nate però dall’altra parte del mare. Unico mezzo di trasporto per volare altrove, una barca.

«La prima classe costa mille lire, la seconda cento, la terza dolore e spavento», cantava De Gregori.

Anche Waad e suo marito Nazem – profughi siriani in Libano, costretti a lasciare la Siria a causa del conflitto logorante tuttora in corso – stavano per ritrovarsi su una barca, alla ricerca di una nuova vita. Ma temporeggiando, a causa della paura e dell’agitazione, hanno rimandato fino al momento in cui, come dice lui: «Dio ha aperto una porta davanti a noi e una luce è entrata a illuminare il nostro cammino: questa luce si chiama Corridoi Umanitari».

Waad e Nazem si conoscevano da quando erano piccoli. Quando è scoppiata la cosiddetta Primavera Araba, le loro famiglie hanno lasciato Homs per rifugiarsi in un villaggio non lontano. L’intenzione era quella di affittare un appartamento per quattro, al massimo cinque mesi, il tempo sufficiente per far calmare le acque e poi ritornare a casa. Sono passati più di cinque anni e le loro famiglie sono ancora lì.

Nazem è fuggito in Libano per evitare il reclutamento obbligatorio nell’esercito, che l’avrebbe portato a combattere in un conflitto dal quale non sarebbe tornato vivo. In Libano però si è ritrovato in trappola: «Era come una grande prigione. Non potevamo vivere né lavorare legalmente. Non avevamo il permesso di soggiornare, ma neanche quello di uscire. Non potevamo restare lì, ma neanche tornare in Siria».

Grazie ai Corridoi umanitari, Waad e Nazem sono arrivati in Italia in maniera legale e sicura, con un aereo e una valigia. «Anche più di una» – ironizza lui, pensando alla quantità di cose che sua moglie ha portato con sé. «C’è dentro tutta la mia vita», esclama lei. Loro, almeno, un pezzo di vita sono riusciti a portarselo dietro. Chi prende il mare arriva scalzo, infreddolito e salato.

A Lampedusa c’è un posto curioso scavato nella roccia: si chiama porto M. M come Mediterraneo, Migrazioni, Memorie e molto altro. Al suo interno, è stato allestito un piccolo museo: effetti personali perduti dai migranti e ritrovati in mare: piccoli e grandi oggetti che raccontano mondi. Per mantenere viva la memoria. Per non dimenticare. Per ribadire che si può e si deve cambiare.

Waad e Nazem sospirano. Ancora una volta ringraziano di essere in qualche maniera sopravvissuti, di essere arrivati in Italia con le scarpe, le valigie piene e una vita ancora davanti. «A Torino siamo ospitati dalla Diaconia valdese e l’équipe che ci segue è per noi come una famiglia: dal primo momento, ci hanno accolto tutti calorosamente. La cosa più importante adesso è studiare la lingua italiana, uno strumento che ci permetterà di essere al più presto indipendenti e ricominciare».

È il 3 ottobre 2016, le commemorazioni sull’isola sono molte. Le domande che giornalisti e curiosi rivolgono ai nostri siriani anche. Ed essi instancabili rispondono: la mia impressione è che maturi in loro pian piano una sempre maggiore consapevolezza dell’esperienza che stanno vivendo hic et nunc su quest’isola, in questa giornata particolare e dell’opportunità che hanno avuto. «I Corridoi umanitari permettono di evitare le morti in mare – dicono – e di mettere fine al giro di affari legato ai trafficanti. La nostra presenza qui e ora dimostra che sono una possibilità tangibile e una reale via di salvezza». Il fratello di Nazem, infatti, ha preso il mare prima di lui alla volta della Germania, seguendo la rotta balcanica: «I nostri due viaggi sono incomparabili: perché – si domanda – io ho potuto raggiungere l’Europa in poche ore e comodamente su un aereo, mentre lui ha dovuto impiegare diversi giorni e mettere in pericolo la propria vita?»

La nostra visita al centro lampedusano di prima accoglienza – struttura in cui vengono portati coloro che sopravvivono alla traversata e che lì rimangono in attesa di essere mandati altrove in Italia – avviene da lontano e dall’alto: pare non sia possibile avvicinarsi e tanto meno entrarvi. Pare sia stato anche interdetto alle persone qui accolte di uscire liberamente e girare per l’isola, in questa stagione ancora alta, fatta di turisti, bancarelle e cocktail da sorseggiare ai tavolini di un bar. Il contrasto è inevitabile e si respira nell’aria.

Ed è la Porta d’Europa allora, monumento alla memoria dei migranti deceduti in mare, a riportarci una nota di speranza: austera, sul promontorio più a sud dell’isola, sempre aperta e protesa verso un altrove, ci riconsegna l’idea di un’accoglienza nuova, che se percorre passaggi sicuri ci pare ancora più auspicabile.