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Matthew: un uragano a due velocità

TAMPA (Florida), domenica 9 ottobre – Ci voleva il mare d’acqua e vento portato dall’uragano Matthew a fermare, anche se solo per poco più di quarantott’ore, l’attenzione dei media locali ormai focalizzati esclusivamente sulle ultime settimane di una infuocata campagna presidenziale 2016 fra Hillary Clinton e Donald Trump. Qui in Florida, da dove scriviamo, da circa la metà della settimana scorsa si sono moltiplicati gli sforzi della Protezione civile e gli appelli del governatore Rick Scott a evacuare, a prepararsi e, in qualche modo, ad aspettarsi il peggio. Con uno spiegamento di forze, di tecnici, scuole e uffici pubblici chiusi abbiamo aspettato che passasse, ci siamo attrezzati di acqua, qualche cibo inscatolato e un «pieno» di benzina, sapendo che il peggio che sarebbe potuto succedere sarebbe stato rimanere senza elettricità per diverse ore (cosa comunque abbastanza comune durante i forti temporali estivi).

Certo, i media hanno giocato a costruire un po’ di psicosi, ma nulla di isterico; solo molto pragmatismo: una macchina organizzativa, di mezzi, persone, tecnologia e capacità veramente impressionanti. Qui sulla costa Ovest, solo marginalmente colpita, abbiamo più che altro avuto a che fare con gli sfollati, ospitati nelle scuole, negli alberghi e anche in qualche casa-vacanza ancora disponibile. Come già il mese scorso per l’uragano Hermine, molto più debole e quindi anche mediaticamente meno interessante, chiese e associazioni locali si sono date veramente un gran da fare per aiutare chi ha veramente avuto problemi. E anche se la conta dei danni è appena iniziata, colpisce sapere che Matthew ha fatto comunque una decina di morti: nonostante tutta la tecnologia, gli avvisi, le dirette Tv, i servizi di emergenza spiegati al servizio di chi vive sulla costa. Ma la cosa che impressiona ancora di più è che Matthew qui ha fatto praticamente l’1% dei morti che ha seminato nei Caraibi, in particolare devastando Haiti. La cosa fa ancora più riflettere vista la vicinanza geografica dell’Isola caraibica a questo lembo di Stati Uniti.

Mille chilometri, un’ora e mezza di volo, come la distanza fra Milano e Reggio Calabria, separano il ricco Occidente che evacua la zona rossa alla guida di un comodo Suv, mentre le genti di questa piccola nazione già colpita da altre catastrofi naturali, da povertà totale (Haiti è la quarta nazione più povera al mondo), non hanno avuto né il tempo né i mezzi per fronteggiare questo evento distruttivo. L’agenzia Reuters oggi parla di 900 morti: probabilmente saranno molti di più, e soprattutto ora il problema sembra essere il colera.

In questo panorama di devastazione – un uragano o perlomeno una tempesta tropicale con venti da un minimo di 150/200 kmh che si abbatte su una costa, su case e città, è veramente uno scenario apocalittico – un barlume di speranza c’è: dall’ambasciatore di Haiti che alla Cnn ringrazia per gli aiuti e chiede coordinamento per non disperdere le energie una volta sull’isola alle numerose associazioni e chiese che si stanno prodigando in raccolte fondi e invii di aiuti umanitari (via aerea e marittima). Uno su tutti fra gli organismi umanitari, uno dei più attivi, già nelle immediate ore in seguito al passaggio di Matthew, è il Presbyterian Disaster Assistance Center tramite il quale vengono raccolte donazioni per Haiti e coordinate missioni d’aiuto.

La sfida nelle prossime ore per il popolo haitiano, nei prossimi giorni e settimane, sarà sopravvivere alla scarsità di cibo e soprattutto di acqua potabile, alle epidemie il cui rischio rimane estremamente alto, ed è una sfida che può essere vinta solo con aiuti esterni. La sfida, o meglio le sfide più a lungo termine, rimangono e rimarranno quelle di sempre – l’uscita, purtroppo ancora troppo lontana, dalla povertà, e il (necessario) risposizionamento come Paese all’interno dell’area caraibica – un’area in via di ridefinizione, con una crescita economica che, seppur a fasi alterne, sta investendo tutta la regione. È ingenuo pensare che la Repubblica Dominicana, unico paese confinante con Haiti, abbia avuto una crescita del 7,4% nel 2016, possa avere un effetto trainante? Forse sì, ovviamente sono anche altri gli elementi che possono e potranno determinare un cambio di rotta, necessario non solo per il benessere economico degli haitiani, ma anche per la stabilizzazione delle nazioni caraibiche, troppo spesso considerate fanalino di coda dei cugini nordamericani, oggi veramente troppo occupati a seguire le ultime boutade del candidato Trump.

Immagine: Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=153433