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Libia, un fallimento in nome di interessi privati

La settimana in corso, come molte di quelle che l’hanno preceduta, è stata segnata dalle decine di operazioni di soccorso delle autorità italiane e di diverse Ong nel mare a nord della Libia. I numeri delle persone salvate e di quelle che non ce l’hanno fatta si sono susseguiti in una catena di cui non si vede la fine e che comincia proprio sulle coste libiche, tra le città assediate e i porti fuori controllo.

Eppure, molto spesso sembra che la guerra in Libia sia soltanto una questione di schieramenti, e che da questa non discendano le tragedie delle migrazioni attraverso il Mediterraneo. Si racconta spesso delle azioni militari del generale Khalifa Haftar contro altre milizie, oppure delle difficoltà nella composizione di un governo di unità nazionale, ma ci si dimentica di chi sul territorio vive, o viveva, e che si è ritrovato di fronte alla necessità, dove possibile, di fuggire.

A preoccupare, in questi giorni, è soprattutto la situazione della città costiera di Benghazi, da dove la ribellione contro Gheddafi aveva trovato la forza e il coraggio di diventare risoluzione, ma che ora è teatro di scontri senza prospettiva di fine. Il 6 ottobre il rappresentante speciale delle Nazioni Unite in Libia, il diplomatico Martin Kobler, ha chiesto una pausa umanitaria del conflitto nella città per consentire di portare assistenza ai civili intrappolati nel quartiere di Qanfouda, dove alcune milizie legate ad Ansar al-Sharia si stanno scontrando con l’esercito governativo.

«È una piccola Aleppo libica – racconta il giornalista libico Farid Adly, di Radio Popolare – e la popolazione è vittima del fuoco incrociato tra l’esercito e i miliziani assediati all’interno di questo quartiere. È una tra le situazioni più preoccupanti sul territorio della Libia».

Senza rientrare nella logica di “buoni e cattivi” con la quale si racconta il conflitto libico, qual è il nodo principale che fa da ostacolo alla pace?

«Il vero problema della Libia è la presenza di tantissime milizie che sono condizionate non da ragioni politiche e scontro politico, ma semplicemente dal controllo del territorio per avere più potere e maggiore disponibilità finanziaria. Oggi fare il miliziano in Libia garantisce uno stipendio che è il doppio di quello di un medico, e di conseguenza moltissime milizie in Libia non hanno una strategia politica, ma semplicemente puntano al controllo di parti del territorio. Questa situazione crea quelli che io chiamo “gli emiri della guerra”, persone che sfruttano la loro situazione per avere più soldi dallo Stato».

In che senso?

«Non dimentichiamo che lo Stato libico continua a pagare tutti i dipendenti pubblici anche in mancanza dello svolgimento delle attività per le quali sono stati assunti.

Questo ha una ricaduta positiva, perché ha permesso che dalla Libia non ci siano ondate di emigrazione di cittadini libici. La maggior parte della popolazione, e questo non lo dice quasi mai nessuno, vive all’esterno della Libia, principalmente in Egitto e in Tunisia, ma questa situazione può reggere soltanto finché potranno ricevere sui loro conti correnti bancari lo stipendio mensile. Se guardiamo alla realtà economica libica più in profondità ci accorgiamo che ogni famiglia ha almeno un dipendente pubblico e di conseguenza un minimo di sussistenza. Trasformando i loro soldi in dollari in Egitto o in Tunisia, queste famiglie possono permettersi di pagare un affitto e di vivere dignitosamente in questi due Paesi confinanti con la Libia».

Se questo flusso di denaro si dovesse interrompere cosa potrebbe succedere?

«Nel momento in cui la Banca centrale libica, che tra l’altro ha la sua direzione all’estero, a Malta, e non all’interno della Libia, dovesse chiudere i rubinetti degli stipendi, allora queste masse di sfollati libici volontari si trasformerebbero in rifugiati. Onestamente penso che né l’Egitto né la Tunisia possano sopportarlo economicamente, e questo innescherebbe un’altra crisi umanitaria molto forte».

Il fatto è che parlare di uno Stato libico in questo momento significa parlare di una realtà che ha pochissimo controllo sul territorio, non è così?

«Sì, basta pensare al Primo ministro Fayez al-Sarraj, incaricato dalla comunità internazionale di formare un governo di unità nazionale e in realtà incapace di farsi riconoscere dal Parlamento.

La questione politica in Libia è causata dalla divisione tra le forze democratiche e le forze islamiste che hanno combattuto insieme contro la dittatura, ma che poi, nel momento in cui si è arrivati al potere, si sono divise su come gestire la fase transitoria. È prevalsa, soprattutto tra gli islamisti di Alba Libica, la necessità di riprendere il potere subito, anche perché nelle elezioni politiche erano stati emarginati. Questo è accaduto perché la popolazione libica è molto moderata e ha visto negli islamisti un pericolo, scegliendo di votare in massa per le forze nazionali democratiche. Il problema è che però queste non avevano milizie, e quindi sono riparate all’estero. Da allora tutti i dirigenti politici delle forze democratiche vivono fuori dal Paese, e lo stesso parlamento è stato esiliato a Tobruk, nell’est libico».

La responsabilità di una situazione priva di prospettive di pacificazione va cercata negli schieramenti internazionali?

«No, penso che la responsabilità principale sia quella delle élite politiche libiche, che non hanno saputo costruire la visione di una realtà nazionale e hanno preferito, in modo egoistico, favorire soltanto loro stessi e i loro schieramenti. Ricordiamo che molti degli attuali leader delle milizie sparse sul territorio erano usciti dal carcere nel 2011 senza avere un dinaro in tasca, e attualmente sono milionari, in dollari, e proprietari di società internazionali e di attività commerciali fortissime».

Quindi dove cominciano le responsabilità internazionali?

«Credo che l’errore sia simile: le cancellerie occidentali hanno pensato ai propri interessi nazionali e non hanno ragionato in termini di pacificazione del Paese. Gli scontri tra i vari interessi della Francia, della Gran Bretagna, dell’Italia o degli Stati Uniti hanno fatto sì che le strategie di ognuno fossero in conflitto con quelle degli altri, e ciascuno ha tentato di trovare degli alleati all’interno del quadro libico. È un errore strategico che tra l’altro non è servito neanche per davvero agli interessi delle singole cancellerie estere. Un esempio banale è quello italiano: l’Italia ha sostenuto in qualche modo alcune parti, soprattutto la componente politica islamista, e questo ha portato a non risolvere la situazione in termini veloci. Il risultato è stata l’emigrazione dalla Libia di migliaia di disperati che provengono dall’Egitto, dall’Africa o da altre realtà di crisi internazionali, migrazioni che l’Italia non riesce a risolvere. La pacificazione della situazione libica avrebbe potuto portare il controllo sul territorio e ad evitare questo esodo di migliaia e migliaia di persone attraverso il Mediterraneo».

Immagine: via flickr.com