sicilia

Ufficio di collocamento a cielo aperto

E’ sufficiente ascoltare le loro storie per capire. Seguire lo sguardo mentre parlano, la voce bassa, i ricordi che si accavallano nel tentativo di spiegarti cose per te impensabili, e passare oltre il più presto possibile. Mamadou (nome di fantasia), 16 anni, viene dal Benin, gli occhi non si sollevano mai dal tavolo mentre racconta il suo viaggio. In treno fino in Niger «e qui al confine il primo arresto. Una settimana in prigione senza cibo né acqua». Poi le porte che si aprono, senza un perché. Tutti fuori, avanti. Ad attenderli fuoristrada stipati all’inverosimile, ad attraversare il deserto di una nazione grande quattro volte l’Italia. «A volte qualcuno si sentiva male, cadeva dal pick up in mezzo alla strada, ma nessuno si fermava a prestargli soccorso». Al confine con la Libia il capitale umano, 32 uomini pigiati nel cassone aperto sotto il sole tropicale, cambia di proprietà. Arrivano altri autisti, altri mezzi, segno di una organizzazione strutturata, transnazionale, mafiosa. Che ha il suo terminale nei porti e nelle stazioni della Sicilia, dove altre figure avvicinano i ragazzi e li destinano a ruoli e mansioni che qualcun altro ha pensato per loro. Manovalanza a costo zero e prostituzione le figure che vanno per la maggiore in questo ufficio di collocamento a cielo aperto, vulnus gravissimo per un moderno Stato democratico.

Della Libia nessuno fra i ragazzi vorrebbe parlare: «Solo cose brutte lì, terribili». Botte nelle carceri che un tempo furono uno degli strumenti con cui il colonnello Gheddafi perpetuava il proprio dominio e che oggi sono più simili a un girone dantesco che a un luogo degno di appartenere a questo mondo. «Tre mesi sono stato in prigione in Libia. Un’esperienza impressionante, non merita che la racconti», ci dice ancora Mamadou. «Poi c’è stata una specie di rivolta e siamo riusciti a scappare verso la costa». Ma per Mamadou prima c’era stata un’altra storia, un altro abisso, specchio dell’abiezione umana: «Dal Niger noi siamo passati in Algeria. Qui, dopo il solito periodo in carcere che deve trascorrere chi non ha soldi per pagare le guardie al confine, sono stato avvicinato da una persona che mi ha detto di aver bisogno di un domestico, un factotum in casa». Questa persona è un ingegnere, la sua è una villa, il lavoro è molto. Sono i soldi a non arrivare: «Mi ha detto di aver aperto un conto in banca a nome mio dove depositare il denaro che così non avrei sprecato; ma io ne avevo bisogno, soprattutto per spedirlo ai miei genitori, ai miei fratelli». Due anni dura questa condizione, e all’ennesima richiesta Mamadou viene picchiato e cacciato in malo modo. Dei soldi nemmeno l’ombra. Due anni. Ne aveva 14 quando ha varcato la soglia della bella casa algerina di cui è divenuto lo schiavo. L’età in cui i nostri figli scelgono se studiare al liceo o a un istituto professionale.

Sono migliaia i racconti di questo moderno esodo biblico. Un continente che perde le sue nuove generazioni, e un altro che non sa che farsene.

I resoconti dei giorni sulle coste libiche rendono l’idea della fretta, dell’ansia di partire e della disperazione di non capire né sapere dove andare. Seydou ci è rimasto mesi, sotto una continua minaccia di morte, prima di riuscire a imbarcarsi. 17 anni, viene della Costa d’Avorio e almeno lui un obiettivo chiaro ce l’ha: deve raggiungere sua sorella a Parigi, e una volta arrivato a Pozzallo è certo che oramai il viaggio si è concluso, il dramma è alle spalle. Se ne sta aprendo un altro invece, che per fortuna non è fatto di bastoni e scosse elettriche, ma di attesa. Giorni che diventano mesi per vedere esaminata una domanda di ricongiungimento familiare, che forse sarà respinta. Un tempo infinito fatto di ricorsi, avvocati, tribunali e forse un giorno qualcuno che invece di aprirgli le porte lo riaccompagnerà indietro, lo rigetterà nel girone.

«Ai loro racconti non ci si abitua mai – conclude Giovanna Scifo – così come al vederli lasciare la Casa delle Culture alla fine del loro soggiorno. Cerchiamo di non perderli, di continuare a seguirne il percorso anche quando se ne vanno. Con molti siamo ancora in contatto, soprattutto tramite whatsapp. Ci aggiornano, ci segnalano parenti in arrivo, uno ci ha addirittura mandato i risultati dei suoi esami per farci vedere che continua a studiare. Sono in giro per l’Europa, ognuno con il proprio sogno».

(fine quarta puntata. Continua)

Leggi la terza puntata del reportage

Leggi la seconda puntata del reportage

Leggi la prima puntata del reportage