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Il cappello di Vermeer e la globalizzazione

Nessun campo dell’attività di pensiero, della capacità espressiva dell’uomo come l’arte visiva – è stato detto – è funzionale agli storici per penetrare l’essenza profonda di strutture economico-sociali, forme culturali, stili di vita di un tempo passato. Timothy Brook, eminente sinologo canadese della British Columbia University di Vancouver e dell’East China Normal di Shangai, spiega il Seicento e la nascita del mondo globalizzato guardando a Jan Vermeer. Il pittore olandese (Delft, 1632-1675) l’autore non lo visita da studioso dell’arte quanto da storico delle relazioni, degli scambi commerciali e culturali Occidente-Oriente, in quel XVII secolo che a opera delle due potenze europee avventuratesi sul mare aperto, l’Olanda prima, l’Inghilterra poi, vide emergere prepotente la borghesia del capitale e la globalizzazione del mondo.

«Avrei potuto far partire il mio percorso da Shangai, per esempio, come studioso della Cina», spiega l’autore. Lo fa partire da Delft, città di nascita dell’artista – racconta ai lettori – perché qui, nell’estate dei suoi vent’anni, a seguito di una caduta rovinosa nell’ultima tappa di un viaggio in bici a girare l’Europa, aveva avuto modo di imbattersi nell’ospitalità della signora Oudshoorn che gli aveva offerto ristoro, «donato Delft» e la conoscenza dell’opera del grande colorista fiammingo.

Di Vermeer, un maestro nel ritrarre gli ambienti della vita quotidiana borghese, Brook si sofferma su cinque quadri, più esattamente sui dettagli che vi sono raffigurati e si domanda-risponde che cosa mai stiano lì a significare: Veduta del porto di Delft, Ufficiale e ragazza che sorride, Donna che legge una lettera davanti a una finestra, Il geografo, Donna con bilancia. Cinque «scene»come finestre su un’epoca. Il porto fluviale di Delft, con le navi pronte a salpare per la pesca delle aringhe, elemento essenziale in quel tempo dell’economia di Nederland (i Paesi Bassi), le tegole rosse dei depositi della Compagnia olandese delle Indie orientali, bastione del capitalismo nascente. Un interno domestico dove un ufficiale con grande cappello corteggia una ragazza: novità dei tempi moderni che un ragazzo e una ragazza ora «si parlassero» da soli, alle loro spalle una carta geografica con le province olandesi e le rotte di navigazione sul mare. La donna con la lettera in un altro interno con un tappeto turco e un piatto di porcellana cinese bianca e blu di Jingdezhen. Il geografo curvo sulle carte nautiche rappresentanti il mondo esteso dall’Europa al resto del globo. La ragazza di prima intenta qui a pesare monete, stante che il peso delle monete olandesi ne stabiliva il valore.

Figurazioni quelle di Vermeer delineanti volto e anima dell’Olanda borghese, potenza marinara, «nazione di mercanti» sul supporto primario di una moderna agricoltura intensiva, calvinista senza ascetismi integralisti, tollerante quindi, amante del denaro ma ancora positiva e serena nel suo fresco benessere in ascesa. «Nessun uomo è un’isola, completo in sé stesso», il verso del poeta teologo inglese seicentesco John Donne è l’epilogo che l’autore pone a messaggio del libro: le «porte» che il mercato, i viaggi, la conoscenza e gli scambi di popoli diversi avevano aperto in quel Seicento nel mondo intero rimangono ancora.

Timothy Brook è un godibilissimo quanto rigoroso affabulatore di storia, sicché mi pare bene lasciare ai lettori di scoprire le sue gustose escursioni di viaggio sulle rotte euro-asiatiche del pianeta che andava a farsi globale. Mi resta così spazio per dire che il libro suffraga un mio convincimento. Guardando indietro, dal mondo in frantumi di oggi, quel XVII secolo dell’Europa, pur nei suoi rabbiosi conflitti, mi appare ancora, in una con il XVI che lo precede, l’età dell’oro della modernità. Di sicuro nel segno dell’economia capitalistica, della globalizzazione marciante, dell’affermazione soggettiva dell’uomo, di un certo feedback tra popoli ed etnie diverse, come Brook documenta. Cent’anni dopo la civiltà europea di quel 600 con i suoi valori moderni, un’unità culturale dell’Europa ancora solida avrebbe preso a scivolare nella deriva. Certo, l’età dell’industrialismo, dello scientismo e tecnologismo con le loro scoperte mirabili, del conclamato trinomio liberté-égalité-fraternité, il trionfo della borghesia e della democrazia rampanti. E tuttavia l’unità dell’Europa si sarebbe rotta, la dismisura colonialista avrebbe finito per infrangere i rapporti di buona vicinanza con le culture altre, l’araba per dirne una (seppure va detto che anche allora l’islam faceva problema, nel 1685, morto Vermeer da 10 anni, l’espansione ottomana in Europa era stata fermata quando stava per prendere Vienna). L’Occidente si è ammalato della sua alterigia di superiorità, dei suoi stessi eccessi: lo ha scritto Tzvetan Todorov, uno dei più laici e lucidi intellettuali d’Europa e si può sottoscriverlo.

* Timothy Brook, Il cappello di Vermeer. Il Seicento e la nascita del mondo globalizzato. Torino, Einaudi, 2015, pp. 296, euro 30,00.

Foto: By Johannes Vermeer – www.mauritshuis.nl : Home : Info : : Image, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=50398