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Terminal Sicilia

Seduta alla veranda che si affaccia sul giardino la signora Francesca, una vita dietro la cattedra, tiene in mano una grande fotografia di una foglia di acero e Mohammed, 22 anni, gambiano, chino sul tavolo, è intento a disegnarne varie copie che verranno poi colorate da Baba, 16 anni, ghanese. «Mi sembra di tornare ai tempi in cui ero circondata da ragazzi a scuola – sorride Francesca – «ma siamo tutti qui ad esser ringiovaniti grazie a questa nuova quotidianità». Il signor Francesco, 80 anni, poeta del gruppo, annuisce convinto e prepara nuovi versi da proporre in anteprima.

Siamo a Vittoria, 27 chilometri a ovest di Ragusa, alla Casa di riposo evangelica valdese dove si realizza un inconsueto scambio generazionale e culturale, un imprevisto felice dal punto di vista organizzativo ma soprattutto umano.

Insieme, migranti e anziani, si ritrovano ad allestire decorazioni e a ideare animazioni per la festa di autunno, occasione per mischiare culture e cucine in compagnia dei parenti che, giunti da fuori, potranno ancora una volta vedere come i loro genitori o nonni non siano in pericolo, tutt’altro. «Il rispetto nei confronti dei più anziani dimostrato dai giovani che in questi anni sono passati da noi è ammirevole e dovremmo prendere esempio», racconta con gli occhi che brillano Antonella Randazzo, educatrice, da 18 anni a condividere piccoli e grandi gesti di chi ha varcato la soglia della Casa di Vittoria.

Le giornate corrono veloci, fra corsi di italiano, laboratori, incontri nelle scuole, collaborazioni con l’amministrazione e il WWF per interventi di pulizia e decoro del territorio – questi ultimi assai utili a mostrare alla popolazione diffidente il lato buono dell’emergenza.

La casa evangelica per anziani di Vittoria ha oggi 83 anni, più o meno quella che è stata per anni l’età media dei suoi ospiti. È stata un avamposto dello spirito evangelico e missionario valdese, in una terra di agricoltura e mafia e, figlia di quella lezione, oggi ha saputo rinnovarsi rispondendo alla nuova sfida del secolo che stiamo vivendo: l’accoglienza dei rifugiati, di donne, uomini, bambini, in fuga da guerre e fame.

Da un paio d’anni a questa parte l’età media ha quindi subito un brusco calo grazie ai nuovi arrivati pachistani e nigeriani, ivoriani e maliani e di molti altri paesi ancora. «Abbiamo cambiato in parte pelle senza tradire però la vocazione assistenziale di questa struttura», racconta con un sorriso Michele Melgazzi, dal 2013 direttore della Casa evangelica valdese di Vittoria. «Il numero di anziani ospiti si stava lentamente ma inesorabilmente assottigliando, e di conseguenza i costi di gestione stavano diventando insostenibili». Poi l’idea, il confronto con la Diaconia valdese, e infine l’avvio di un progetto che in Italia rappresenta probabilmente un unicum: «la Sicilia sopporta numeri da esodo biblico, hotspot e prefetture sono più che ingolfati, qui abbiamo dato vita a un progetto di convivenza fra generazioni e culture lontane fra loro, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Fortunatamente».

Oggi la struttura ospita 34 anziani e 64 richiedenti asilo, oltre a 20 ragazzi destinati ai Cas, i centri di accoglienza straordinari nati per decongestionare gli hotspot ufficiali come quello della vicina Pozzallo, e 23 rifugiati segnalati come casi particolarmente vulnerabili di competenza degli Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati previsto dalla legge n.189 del 2002. L’accoglienza, come per ogni Sprar, è pensata per un periodo transitorio, quindi in teoria con un ricambio elevato di persone che possono usufruire dell’ospitalità. In teoria. «Da noi i rifugiati dovrebbero stare dai sei ai nove mesi ma con le lentezze della burocrazia, che ci mette molto a rispondere alle richieste di asilo, restano anche due o tre anni. Se poi la domanda d’asilo non viene accolta e si fa ricorso, i tempi si allungano ulteriormente».

Non è difficile da immaginare. Un circolo vizioso di richieste, attese, destinazioni di prima, seconda e terza accoglienza e poi da capo la strada, se non si trova un progetto – un lavoro, una casa – che radichi la persona nella regione in cui vive. Così capita che i migranti si facciano prendere dallo sconforto per una situazione di stallo che sembra senza via d’uscita, con impieghi a giornata o comunque precari (se va bene), la mancanza di affetti e reti famigliari a fare da sostegno, un futuro sempre più incerto e la necessità di andare avanti, informarsi, imparare l’italiano, tutti – chi più chi meno – con un bagaglio di stress post traumatico per le sofferenze subite durante il viaggio.

(fine prima puntata. Continua)

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