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La grammatica della generatività

Mia madre mi ha partorita quando aveva 27 anni. Prima di me, per quanto ho potuto ricostruire, altri tre figli, di cui il primo riconosciuto dal padre minorenne, ma non da lei, che lo aveva messo al mondo.

Mia madre, nonostante il disagio sociale e le condizioni di vita difficili, è stata una donna molto fertile, forse troppo fertile; e solo per gli ultimi due, dei numerosi figli che ha partorito, è riuscita ad essere, in qualche modo, madre. Per tutti gli altri, hanno sopperito le istituzioni o le adozioni.

Se non posso dire, a pieno titolo, di avere avuto dei genitori, riconosco che la mia vita è stata attraversata da figure genitoriali, mentori, persone che mi hanno accudito, accompagnato, corretto e aperto il futuro. Queste figure non coincidono con la fertilità dei miei genitori biologici eppure è anche a loro che devo la mia gratitudine per avermi partorito a nuove possibilità di vita. Sono un caso estremo?

Dopo anni di esperienza pastorale, non mi convince più l’idea che la mia vicenda familiare lo sia. Ascolto troppe storie di ferite affettive, causate da violenze domestiche e abusi; e constato che le famiglie più propense a fare figli sono spesso quelle dove il disagio sociale è più alto. Ma, anche questa non è una regola. Conosco famiglie numerose sane, con incastri complessi e creativi. Grandi funamboli quei genitori capaci, nonostante i pochi aiuti sociali, di tenere assieme una gestione familiare faticosa.

Ciò che più mi ha indignato della campagna «Fertility day» non è stata tanto la pubblicità di cattivo gusto, immemore di un passato non troppo remoto in cui un’analoga iniziativa è stata intrapresa per la difesa della razza. E neppure l’alto tasso di ideologicità, a fronte di insufficienti politiche familiari. L’elemento che, a mio giudizio, risulta più scandaloso è dato dalla banalizzazione di un aspetto complesso come il rapporto con la generatività.

Certo, in Italia ci sono coppie che non fanno figli. È un dato di fatto. Ma ridurlo a puro dato medico, senza inserire la questione in un quadro necessariamente complesso suona offensivo, e non solo per le coppie che non riescono ad avere un figlio, ma anche per chi, come me, dovrà per tutta la vita fare i conti con una fertilità biologica che non è coincisa con una vocazione alla genitorialità.

E se questo non bastasse, cosa dire delle donne che, dopo lunghi percorsi di liberazione sono arrivate a poter controllare il proprio processo produttivo attraverso una sessualità consapevole? L’indignazione più grande però, per questo modo banale e superficiale di affrontare il tema della crescita, la sento nei confronti di tutti quei bambini nati, educati e cresciuti nel nostro paese a cui viene negata la cittadinanza solo perché figli di immigrati. Bambini, adolescenti che non hanno diritto di sentirsi, a pieno titolo, parte del paese in cui nascono e crescono. Sono così tanti quei bambini e quelle bambine madrelingua italiani, che, se fossero riconosciuti nella loro piena dignità di cittadini, invertirebbero le statistiche catastrofiche e allarmistiche sull’invecchiamento della popolazione. Ma loro non contano, hanno la pelle troppo scura, anche se parlano perfettamente il nostro dialetto e faticano con la lingua d’origine dei loro genitori.

Insomma, parlare di sterilità o fertilità per affrontare il tema del rapporto tra generazioni è riduttivo. Persino nella Bibbia, quando si parla della sterilità delle matriarche, non ci si limita ad affrontare un problema fisiologico, ma si allude al complesso rapporto con il futuro, con le generazioni che verranno. Dietro la sterilità delle matriarche, c’è la consapevolezza biblica che il futuro non arriva mai per inerzia: bisogna continuamente rinegoziarlo. Ogni generazione è chiamata ad aprire una nuova breccia ed occorre tutta la creatività divina e umana per aprire al nuovo. Del resto, per le Scritture, la storia della salvezza non è un assunto astratto: passa attraverso il rapporto tra le generazioni. È storia partorita, non ideologia gridata.

Per aprire al futuro, non basta parlare di sterilità e isolare un aspetto, quello biologico. Solo una politica cieca, settoriale, arriva a ridurre la progettualità verso le generazioni future al «Fertility day». Occorre riscoprire, invece, una grammatica della generatività che affronti la complessità della questione per arrivare, al di là della propaganda, a garantire politiche che favoriscano il fluire della vita, anche in tempi di crisi. Non è solo un problema biologico e non riguarda soltanto le giovani coppie che decidono o non possono o non desiderano avere figli. Riguarda tutti noi. C’è tutta una società che deve uscire dalla sterilità del lamento, per riscoprire linguaggi generativi. È prioritario articolare una grammatica della generatività. Poi, sulla base di quella grammatica potranno prendere forma una pluralità di discorsi, anche opposti. E il dibattito pubblico sarà arricchito dalla molteplicità delle narrazioni. A patto, però, che i differenti discorsi seguano le regole grammaticali. Mi sembra che il discorso della ministra della Salute, Beatrice Lorenzin, proprio perché non tiene conto di questa complessità, risulti sgrammaticato. Chi non conosce coppie sterili «generative» e coppie fertili che non lo sono? Generare un figlio, una figlia richiede tempi lunghi, impegno, cura, dedizione, responsabilità, progettualità, fiducia nel futuro, sostegno economico ed educativo. Niente a che vedere con questa campagna pubblicitaria del Ministero della salute. Un’iniziativa ideologica e irresponsabile. Sterile.

Immagine: via pixabay.com