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Al Qaeda non è finita

Quando nel giugno del 2014 il capo supremo del gruppo Stato islamico, o Daesh, Abu Bakr al-Baghdadi, proclamò il Califfato nei territori compresi tra Siria e Iraq contesi ancora oggi da un gran numero di forze militari, diversi osservatori internazionali sentenziarono la fine di al-Qaeda, il primo gruppo della cosiddetta “galassia jihadista” a ottenere grande visibilità internazionale dopo l’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001. Nel frattempo, era il 2011, le forze speciali statunitensi avevano ucciso Osama Bin Laden, capo e simbolo stesso del jihadismo globale, immaginando di porre termine non solo alla vita dell’emiro saudita, ma anche all’esperienza qaedista.

Tuttavia, considerare al-Qaeda come una realtà marginale è un grave errore, perché la cronaca di questi mesi sta mostrando invece che il gruppo terroristico è tutt’altro che scomparso, ma attraverso un cambio di strategia è probabilmente più forte che mai. Addirittura, il “basso profilo” adottato da al-Qaeda, guidata ora dal medico egiziano Ayman al-Zawāhirī, ha fatto pensare ad alcuni osservatori, dentro e fuori dal Medio Oriente, che la fase “terroristica” sia finita e che ormai il gruppo vada considerato come un movimento politico a tutti gli effetti. Una mutazione genetica, insomma, che non convince Ludovico Carlino, analista per il Medio oriente e il Nord Africa per l’istituto IHS Jane’s, che vede in questa nuova strategia soltanto un riposizionamento in attesa di eventi futuri.

Lei crede in questa trasformazione di al-Qaeda?

«Personalmente no. Credo piuttosto che si debba parlare di un adattamento e di una ripresa di concetti che al-Qaeda aveva già portato avanti e consigliato ai suoi seguaci in passato. La differenza più importante rispetto ad alcuni anni fa è che al-Qaeda si trova in questo momento, nel cuore del Medio Oriente, nel pieno di una competizione che non è solo con lo Stato Islamico, ma che mira a riprendere un discorso che sembrava essere stato interrotto dalle rivolte scoppiate nel 2011. In questa fase al-Qaeda ha adottato concretamente un approccio che sia Ayman al-Zawahiri sia Osama Bin Laden avevano consigliato per diverso tempo, cioè utilizzare un approccio che non si focalizza esclusivamente sul jihad, sulla lotta armata, ma che accompagna a questo elemento quello della daʿwa, cioè del proselitismo. Sottolineare il fatto che al-Qaeda stia cercando di associare questi due aspetti e arrivare alla conclusione che si stia trasformando in un movimento politico, abbandonando la sua natura di organizzazione terroristica, secondo me è miope, perché non si coglie la fluidità di questo movimento che ha saputo cambiare nel tempo».

È un cambiamento comune a tutta la rete qaedista?

«Decisamente no. Se guardiamo ad al-Qaeda non solamente come a quel nucleo di combattenti che in questo momento è presente specialmente in Siria, Afghanistan e Pakistan, ma guardiamo al movimento come rete di diversi affiliati, quello che emerge è che rami dell’organizzazione, come Ansar al-Sharia in Yemen o al-Qaeda nel Maghreb islamico, sono mutate poco rispetto al passato. Basta pensare al fatto che l’ultimo attentato in Europa sponsorizzato da Ansar al-Sharia è stato proprio quello contro Charlie Hebdo a Parigi, che sottolinea il fatto che in realtà al-Qaeda non abbia assolutamente lasciato da parte la sua intenzione di colpire il nemico usando la violenza».

Torniamo alla Siria: qui il processo di cambiamento esiste?

«Sì, in Siria il processo è differente: già alcuni anni fa il capo di Jabhat al-Nuṣra, Abū Muḥammad al-Jawlānī, nelle sue prime interviste ad Al Jazeera aveva specificato che uno degli ordini di al-Zawahiri nei confronti dei combattenti siriani era quello di non utilizzare il territorio siriano come punto di partenza per complottare attacchi contro l’Occidente, perché questo avrebbe ostacolato l’obiettivo del gruppo in Siria, ovvero il rovesciamento del regime di Assad per la creazione un nuovo Califfato, che nei fatti rimane l’obiettivo ultimo di al-Qaeda, esattamente come lo è per lo Stato Islamico. I due gruppi hanno quindi una base ideologica comune e lo stesso obiettivo, per cui probabilmente l’unica differenza visibile agli osservatori esterni rispetto al Daesh va cercata nel modo in cui vengono condotti gli attacchi».

Solo nelle modalità o anche negli obiettivi?

«Entrambi. Da parte del Daesh gli attacchi sono molto più brutali, ma soprattutto c’è la tendenza e la costanza a voler colpire specialmente minoranze religiose, un’insistenza sul conflitto settario tra sunniti e sciiti che negli anni è stato un po’ rivisitato da al-Qaeda: al-Zawahiri aveva chiesto, o ordinato, ai vari affiliati di esimersi da attacchi contro gli sciiti, e questa differenza nel portare avanti la lotta armata facilita l’emergere di queste narrative secondo cui al-Qaeda sta diventando un movimento politico».

Secondo lei al-Qaeda viene percepito in questo periodo come una minaccia inferiore rispetto al Daesh perché c’è bisogno di individuare un avversario interno al mondo jihadista?

«È possibile. Anzi, diciamo che è evidente il fatto che ormai la stampa internazionale e anche alcuni gruppi di ricerca negli ultimi due anni abbiano individuato il Daesh come il nemico principale in Medio oriente, mentre al-Qaeda è stata un po’ confinata tra le minacce secondarie. Questo approccio si deve al fatto che per un certo periodo di tempo, dopo la morte di Osama Bin Laden, si era fatta strada l’idea che al-Qaeda fosse in declino e che al-Zawahiri fosse un leader debole, senza capacità. In realtà la storia è molto diversa, perché a lungo termine al-Qaeda e tutti i suoi affiliati sono una minaccia ben più forte di quello che rappresenta lo Stato islamico».

Perché molto più forte?

«Perché il Daesh in questo momento ha una strategia ben chiara, che è quella di basare la sua legittimità sull’idea stessa del Califfato, ma arriverà un momento in cui quella struttura, quell’entità organizzativa, subirà un collasso definitivo. La strategia che ha adottato in questi anni al-Qaeda, invece, è stata quella di inserirsi gradualmente nel tessuto sociale delle popolazioni in cui opera, non tanto per diventare un movimento politico, ma perché in questo modo può radicalizzare nuove sacche di popolazione anche tra le generazioni più giovani, che stanno sposando quell’idea e stanno crescendo con l’idea di al-Qaeda come movimento più vicino alle popolazioni di quanto non lo sia il Daesh. Questa nuova base sociale e questi nuovi militanti continueranno a portare avanti un’idea che sta lì da vent’anni e che non è mai stata sconfitta né dal punto di vista militare né da un’opposta narrativa, né dall’emergere di fenomeni di islam politico differente nella regione, e il fatto di non essersi alienati la base sociale ha creato questa confusione nel ruolo che al-Qaeda sta giocando in questo momento, ma è anche vero che questo ruolo in questo preciso momento è limitato alla Siria, che rappresenta il campo di battaglia principale dello scontro al-Qaeda e il Daesh».

A cosa punta questo riposizionamento di al-Qaeda nel breve periodo?

«Si tratta di un esercizio mediatico che non dice nulla rispetto a quello che al-Qaeda è, in termini identitari, ma dice molto rispetto alle sue intenzioni, cioè ritagliarsi un posto e un ruolo di primo piano in Siria con l’obiettivo che, quando il Daesh verrà sconfitto, sarà già pronta a prenderne il posto».

Possiamo immaginare al termine del conflitto siriano, quando arriverà, uno scenario jihadista in cui non ci sarà più il Daesh ma in cui al-Qaeda continuerà a esistere?

«No. Il problema è che non solo al-Qaeda continuerà ad esistere, ma continuerà ad esistere anche il Daesh, che militarmente subirà sicuramente una flessione più accentuata di quella che sta subendo adesso, ma che a livello ideologico è destinato a rimanere a lungo. Il modo in cui si è cercato di contrastare fino a questo momento il Daesh, cioè attraverso la forza militare, non è differente, e non è differentemente destinato a fallire, rispetto alle politiche o alle strategie che sono state utilizzate contro al-Qaeda negli ultimi vent’anni, che sono state prettamente militari. Quindi il Daesh a quel punto tornerà alle origini, quindi non ci sarà più il Califfato e il controllo sul territorio, ma un classico movimento terrorista insurrezionale che si muoverà nel deserto esattamente come ha fatto prima del Califfato. C’è però una variabile da non ignorare: invece di una potenziale competizione potrebbe esserci anche un tentativo di superare il dibattito interno tra il Daesh e al-Qaeda e andare verso una riunificazione dell’ambiente jihadista in Medio oriente in un prossimo futuro, in grado di sfruttare i vuoti di potere postbellici. Questo rappresenta uno scenario ben più allarmante rispetto a quello attuale».

Immagine: By MSGT JAMES M. BOWMAN, USAF – This Image was released by the United States Air Force with the ID DF-SD-04-02188 (next).This tag does not indicate the copyright status of the attached work. A normal copyright tag is still required. See Commons:Licensing for more information. Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2392269