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Turchia, un uomo solo al comando

 Nella notte tra il 15 e il 16 luglio del 2016 tutto il mondo aveva osservato con un misto di curiosità e preoccupazione il tentativo di rovesciare il potere del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan da parte di alcuni settori dell’esercito, e nelle settimane successive aveva assistito a un rafforzamento del potere del presidente e a una durissima repressione messa in atto nei confronti di un amplissimo fronte di cittadini: militari, giornalisti, insegnanti o semplici dipendenti statali.

Negli ultimi giorni le cosiddette “purghe” hanno nuovamente occupato le pagine dei giornali italiani, ma si nota uno spostamento dell’attenzione: dopo aver allontanato decine di migliaia di insegnanti accusati di essere “gulenisti”, il governo turco ha annunciato di aver individuato oltre diecimila docenti vicini ai ribelli del Pkk nel sudest del Paese, e adesso sta cercando di accertare quanti di questi siano direttamente o indirettamente associati all’organizzazione, considerata un gruppo terroristico da Ankara.

Questa repressione, sempre più ampia e diffusa, sembra essere destinata a colpire tutti coloro che, in un modo o nell’altro, sfuggono a una forma di ortodossia turca pensata e dipinta dal governo di Erdoğan, e a poco più di cinquanta giorni dal fallito colpo di Stato sembra trovare un ampio sostegno nella popolazione. «In questo momento – spiega infatti Marta Ottaviani, giornalista e collaboratrice di varie testate, tra cui La Stampa, Avvenire e Radio 3 – il presidente Erdoğan gode di una popolarità senza precedenti e su larghissima scala, anche se non è tutta spontanea».

In che senso?

«Diciamo che c’è una parte anche abbastanza consistente del Paese che crede in Erdoğan, e ci crede sempre più fermamente, ma c’è un’altra quota che invece si fa andare bene in qualche modo il presidente della Repubblica soprattutto per convenienza economica. Infine, non dobbiamo dimenticare chi lo sostiene perché ha paura. È difficile dire quanto pesino le singole frazioni di questo insieme, ma c’è un dato certo e inconfutabile: le voci di dissenso sono molto poche e il più delle volte si cerca in ogni modo di metterle a tacere».

La Turchia ha chiuso la sua storia di Paese laico. Quanto c’è di realmente identitario e quanto invece di calcolo politico in questa transizione?

«All’inizio della sua deriva autoritaria, dal 2007 in poi, cioè dal suo secondo mandato, Erdoğan aveva già sicuramente un’impronta conservatrice, ma dall’inizio del terzo mandato, a partire dal 2011, questa attitudine autoritaria ha assunto connotati sempre più religiosi, anche perché nel frattempo abbiamo vissuto il fenomeno delle cosiddette “Primavere arabe” e la crisi siriana tuttora in corso. Ecco, Erdoğan si è proposto in quella fase come guida spirituale per tutto il Medio Oriente pensando che la sua Turchia potesse essere un modello. Attenzione, però: non un modello di Stato democratico in un Paese musulmano, ma di Paese musulmano sunnita con un glorioso passato alle spalle come quello dell’Impero ottomano, che era un po’ il punto di riferimento di tutta la regione».

Quanto potrà reggere Erdoğan in questo suo ruolo?

«Credo ci siano molti attori che in questo momento sono interessati a tenere Erdoğan dove si trova, anche perché quella che in Turchia viene letta come una posizione strategica e raccontata come la politica di un Paese chiave, per altri è in realtà una pedina utile. Mi riferisco soprattutto a Vladimir Putin, che in questo momento, a mio modo di vedere, ha più interesse a tenere Erdoğan dove si trova; forse non è un caso che subito dopo il golpe mancato del 15 luglio scorso Putin sia stato il primo a chiamare Erdoğan e a esprimere interesse per un riavvicinamento».

Anche perché questo riavvicinamento è corrisposto anche a un riposizionamento generale nella regione. Si parla molto della rinnovata e rafforzata repressione nei confronti della popolazione curda nel sudest del Paese, ma anche in Siria. È l’unica minoranza a pagare un prezzo così alto in questo momento?

«Sicuramente è quella che lo sta pagando in maniera più evidente, anche perché ricordiamo che c’è una contesa storica aperta, con i curdi che rivendicano diritti che non gli vengono riconosciuti da decenni. C’è però da sottolineare che l’impronta nazionalista che Erdoğan ha dato alla sua azione politica ormai da qualche anno, almeno dal 2013 in poi, mette a rischio tutte le minoranze religiose presenti nel Paese: in prima battuta i curdi, in seconda gli Aleviti, una minoranza musulmana, perché gli aleviti sono una confraternita di derivazione sciita, quindi contrapposta al sunnismo che è in qualche modo la religione di Stato in Turchia. In realtà anche greci, cristiani ed ebrei, si sentono poco tranquilli, non tanto per quello per quello che possa fare Erdoğan in sé, che è già abbastanza preoccupante di suo, ma soprattutto per i toni che ha assunto la gente: la Turchia è diventato un Paese assolutamente esterofobo e con una scarsissima propensione verso l’esterno, in particolare verso l’Occidente, e dove covano sentimenti antieuropei e antiamericani che non raggiungevano simili vette da anni».

Questo va a influenzare anche le cosiddette “minoranze senza voce” come Yazidi e circassi o per loro la situazione era già insostenibile prima e quindi non ci sono variazioni significative?

«Per loro la storia è sempre la stessa: dovevano già stare attenti prima del fallito golpe, credo che adesso faranno ancora più attenzione».

Erdoğan si è riavvicinato a Putin per molti aspetti, ma in Siria i due Paesi continuano a essere in guerra, non solo per procura. Come si spiega questa contraddizione?

«Per Putin la cosa più importante è che Assad rimanga dove si trova, e probabilmente sta dando tutto questo spazio a Erdoğan nel nord della Siria proprio per fare in modo che poi il presidente turco non accampi pretese su Assad. C’è da dire che probabilmente in Siria verrà costituita una zona di influenza turca, che avrà connotati ambigui e che, se già non piace a Putin, farà veramente poco piacere alla futura amministrazione americana. Il presidente russo si sta giocando la sua partita nel Mediterraneo a larghissimo spettro: la Turchia non è l’attore principale, perché l’obiettivo ultimo è quello di dare tutto il fastidio possibile a Washington».

Domenica 11 settembre verrà presentato in anteprima a Milano il suo libro, Il Reis. Come Erdoğan ha cambiato la Turchia. Da quale esigenza nasce questa opera?

«Credo fosse necessario spiegare ai lettori com’è cambiata la Turchia negli ultimi dieci anni. Siamo infatti abituati a pensare a una Turchia laica, guidata da istituzioni democratiche, che rappresenta il secondo esercito della Nato, un Paese fedele alleato dell’Occidente. Ecco, quella Turchia non esiste più e dobbiamo prendere coscienza di quanto il cambiamento sia stato radicale».

Immagine: via flickr.com