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Egitto, l’avvocato e attivista Malek Adly è stato rilasciato

La scorsa settimana, la Corte d’Assise del distretto di Shubra El-Kheima, in Egitto, ha annunciato la decisione di rilasciare l’avvocato e attivista egiziano Malek Adly, accusato di “voler rovesciare il governo” e di aver “istigato alla protesta del 25 aprile scorso”.

Con la scarcerazione, si chiude una detenzione di 114 giorni caratterizzata da lunghissimi periodi di isolamento, che hanno visto le condizioni del responsabile della Rete degli avvocati dell’Egyptian Center for Economic and Social Rights peggiorare in modo significativo: l’assenza di un luogo in cui dormire e di cure mediche, così come la mancanza di un processo, hanno messo in luce ancora una volta un generale disprezzo per i diritti umani da parte del sistema statale egiziano, responsabile in questi ultimi anni di un gran numero di sparizioni e di carcerazioni preventive mai motivate.

La storia dell’avvocato egiziano Malek Adly si interseca con quella del ricercatore italiano Giulio Regeni, scomparso il 25 gennaio e ritrovato una settimana dopo alla periferia del Cairo. Adly era stato il primo a denunciare la scomparsa di Regeni e il 17 maggio scorso i familiari del ricercatore avevano segnalato il suo caso chiedendo a rappresentanze diplomatiche, associazioni e mezzi d’informazione di seguirlo da vicino per evitare un accanimento giudiziario.

Anche Amnesty International, attiva da mesi alla ricerca di verità per il caso Regeni, aveva seguito la vicenda di Adly. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, «Malek Adly era perseguitato per almeno tre motivi».

Quali sono?

«Innanzitutto, come molti altri difensori dei diritti umani, Malek Adly è un avvocato, quindi esperto di aspetti legali, quindi non soltanto è impegnato nella denuncia e nella ricerca sulla violazione dei diritti umani, ma anche nella difesa di persone sottoposte a processo, e questo è il primo motivo per cui la sua attività ha dato fastidio.

In secondo luogo, ad aprile insieme ad altre persone è stato tra i principali contestatori della decisione, poi annullata dal Consiglio di Stato, con cui il presidente al-Sisi aveva ceduto all’Arabia Saudita la sovranità di due isole del Mar Rosso, Tiran e Sanafir.

In terzo luogo c’è un collegamento diretto tra l’attività di Malek Adly e la vicenda di Giulio Regeni, che può essere stato un ulteriore elemento che lo ha posto nel mirino delle autorità».

Qual è la connessione tra Malek Adly e la vicenda di Giulio Regeni?

«Troviamo l’avvocato Adly sin dall’inizio di questa orribile storia che si è conclusa nel modo che sappiamo, con il ritrovamento del corpo straziato e torturato di Giulio all’alba del 3 febbraio.

Sin dalla sera stessa del 25 gennaio, quando si era sparsa la voce sia nella comunità degli espatriati, dei ricercatori, che degli attivisti per i diritti umani, del fatto che Regeni non si trovasse più, Adly è stato uno dei primi che si è dato da fare, che ha svolto ricerche personalmente, ha indagato ed è stato peraltro uno dei primi della comunità degli attivisti egiziani che è arrivato all’obitorio al Cairo per rendersi conto delle condizioni in cui si trovava il corpo di Regeni e ha fatto quello che è solito fare: indagare e cercare di capire che fine fanno gli scomparsi».

La scarcerazione rappresenta una svolta per i diritti umani in Egitto o va considerata un caso isolato?

«La mia sensazione è che, per quanto positivo, si tratti di un caso isolato. Le immagini della sua uscita dal carcere del Cairo sono state emozionanti, hanno dato soddisfazione non solo ai familiari e agli amici, ma a tutta la comunità dei diritti umani, e hanno dato ragione alle proteste, alle pressioni molto forti attuate anche da parte dell’Italia, con migliaia e migliaia di persone che hanno scritto appelli per la sua scarcerazione. Tuttavia, Adly è ancora sotto processo e insieme a lui ci sono molti suoi colleghi: voglio ricordare il primo, Ahmed Abdallah, anche lui fortemente legato al caso di Giulio Regeni, perché è il direttore della commissione egiziana per i diritti e le libertà, che è l’Ong egiziana che fornisce consulenza ai legali della famiglia Regeni, cioè il loro punto di riferimento al Cairo.

Per questo motivo non direi che siamo di fronte a una svolta per quanto riguarda la situazione dei diritti umani nel Paese e spero che nessuno all’interno delle autorità italiane voglia considerarla tale e farla passare per un segnale del fatto che le cose si stiano rimettendo a posto. Abbassare il tiro pensando che il silenzio permetta di ottenere qualcosa di più rispetto alla verità su Giulio Regeni sarebbe un errore tragico».

Malek Adly è stato accusato di voler rovesciare il governo di al-Sisi. Stiamo parlando di un’accusa credibile? Parliamo di un obiettivo condiviso dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani?

«Molte volte ci è stato chiesto quale fosse l’obiettivo della campagna Verità per Giulio Regeni, e l’obiettivo sta scritto nel suo titolo: niente di meno, ma anche niente di più. Credo che la soluzione per quello che è l’obiettivo che condividiamo, cioè il rispetto dei diritti umani, sia all’interno dell’Egitto. È qualcosa che abbiamo chiesto a Mubarak, a Morsi e ora ad al-Sisi e lo chiediamo a chiunque sia nell’organigramma del potere in Egitto. Certo, aggiungo, un Paese la cui leadership si regge al potere con torture, con sparizioni, con arresti, con processi di massa, con accuse di terrorismo a difensori dei diritti umani è un Paese di per sé fragile e dunque difficilmente immaginabile che questa politica di risposta al terrorismo col terrore possa dare stabilità».

Sono passati oltre sette mesi dalla scomparsa di Giulio Regeni e i passi avanti compiuti nella ricostruzione della verità sono stati davvero pochi. L’8 e il 9 settembre ci sarà a Roma un incontro tra le due procure. Cosa ci si può attendere?

«Gli obiettivi restano due: premere sull’Egitto perché cominci a collaborare in modo finalmente efficace, e vedremo se questa volta arriverà qualcosa di concreto dal Cairo. Non ho alcun pregiudizio, ma non posso dirmi ottimista. L’altro obiettivo è che l’Italia non si faccia trascinare troppo dalla voglia di normalizzare i rapporti. Ieri abbiamo lanciato un appello al presidente del Consiglio italiano perché circolano voci che il nostro nuovo ambasciatore sia prossimo a essere inviato al Cairo. Questo sarebbe un errore da due punti di vista: prima di tutto perché esattamente 36 ore fa la mamma di Giulio Regeni ha chiesto che questo non accada fino a quando non si avrà la verità, e poi perché farlo adesso, in assenza di qualunque passo avanti da parte egiziana e persino alla vigilia di questo incontro tra le procure, vorrebbe dire aprire un credito che l’Egitto in questo momento non merita. Roma e Il Cairo fanno lo stesso discorso, cioè trattano l’omicidio di Giulio Regeni come un caso isolato, per l’Egitto perché secondo al-Sisi non ce ne sono altri del genere, e per l’Italia perché degli altri non ci importa nulla».

Foto: Via Flickr