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Spini-Peyrot: una duplice eredità da reinterpretare e rivivere

È difficile ricordare personalità del passato senza cadere in commemorazioni proforma. Fare memoria può correre il rischio di tramutare personaggi grandi – grandissimi – in santini d’adorare, forse da rimpiangere, magari da – più o meno benevolmente – criticare. Ricordare Giorgio Spini e Giorgio Peyrot poteva diventare un’occasione mancata: come parlare di due personalità chiave delle chiese valdesi e metodiste italiane davanti a persone che li hanno conosciuti e vissuti, amati o criticati senza che li si trasformasse in belle statuine d’ammirare? Simone Maghenzani e Alessandra Trotta sono riusciti a presentare la dinamica stessa di azioni passate trasformandole in eredità ricevuta, da reinterpretare e rivivere.

Mi sembra, dunque, che questa Giornata Miegge di venerdì 19 agosto 2016 sia stata tutt’altro che un’occasione sprecata.

Lo ripeto: il compito non era facile. D’altronde, lo stesso titolo della Giornata risultava complesso. Bisognava trattare di «Fede e Storia», «Fede e Diritto», «Impegno nella società»: Giorgio Spini, Giorgio Peyrot. Sono ancora attuali per la Chiesa valdese le prospettive di questi due credenti impegnati? Eppure, intelligentemente, era chiaro che il centro delle presentazioni doveva andare nella direzione delle «prospettive» dei due e non della rievocazione della loro personalità. E così è stato.

Simone Maghenzani, storico dell’età della Riforma e della Controriforma a Cambridge, ha scelto di cominciare le sue considerazioni con la «voce» stessa di Spini, citandolo già dal titolo proposto: «“Fare il proprio mestiere il meno peggio che sia possibile”: Giorgio Spini, la storia e la vocazione dei protestanti». Chiedendosi quale fosse il senso della lezione storica e civile di Spini per gli evangelici italiani, Maghenzani si è interrogato su quanto resti oggi delle sue intuizioni e indicazioni per evangelici. Sarebbe stato forse più semplice per Maghenzani confrontarsi con lo Spini accademico per l’affinità nel campo d’indagine e per la conoscenza della bibliografia; eppure, egli ha accolto la sfida di confrontarsi con qualcuno che lui non ha conosciuto personalmente, ma che ha «vissuto» a un livello intenso, quello dell’eredità per le Chiese, appunto.

Maghenzani ha ricordato come le figure di Spini e Peyrot non possano (non debbano) essere «imbalsamabili»: esse vanno considerate nel loro dinamismo ed evoluzione. Ed è chiaro anche che queste non sono affatto figure sovrapponibili. L’occasione che egli ha saputo cogliere ha permesso di guardare a essi per capire dove siamo come Chiesa, da dove veniamo, quali le strade che nel passato si presentarono e quali furono scelte, quali quelle che si aprono per il futuro delle Chiese.

La relazione si è poi soffermata poi su tre importanti temi: 1) il nesso tra Protestantesimo e modernità; 2) la mancata Riforma in Italia; 3) l’interpretazione della storia valdese e la vocazione dei Protestanti in Italia.

Alessandra Trotta, che fino al maggio di quest’anno ha guidato il Comitato permanente per l’Opera per le chiese metodiste in Italia, ha voluto concentrare la sua relazione sulle azioni e l’eredità di Giorgio Peyrot: «“Giorgio Peyrot: servo inutile, soli Deo gloria”. Coscienza ecclesiologica, solidarietà responsabile, formazione per una testimonianza coerente nella società e di fronte al potere». Anche la relazione di Trotta è stata divisa in tre punti: 1) la revisione delle Discipline, 2) il rapporto con le autorità dell’ordinamento civile, 3) l’organizzazione della Diaconia, dei quali il primo è stato certamente, per ragioni di tempo, il più sviluppato.

Tra gli elementi perseguiti da Peyrot, ricordati con tono squisitamente giuridico, quello della «decisione» (l’importanza, cioè, di giungere a delle decisioni nella Chiesa, per cui l’esercizio dell’essere-chiesa non sia mera questione di principio), della «responsabilità» della Chiesa tutta nella cura del metodo partecipativo (consensus ecclesiae), per cui «nelle Chiese è il consenso che conta, non la maggioranza», quello della «formazione» della classe dirigente della Chiesa, una formazione non solo formale (per esempio attraverso i corsi di formazione), ma anche informale e intenzionale (contesti creati sull’andamento della vita della chiesa, una paziente spiegazione del senso delle cose, attraverso i quali i problemi maturino nella vita dei più).

Del processo di revisione delle Discipline, mi sembra interessante sottolineare quanto Trotta ha evidenziato rispetto all’oggi: il lungo e articolato processo (dal ’59 al ’75) che ha condotto alla revisione non è stato forse lo stesso che ha portato agli accordi ecumenici d’integrazione più recenti, soprattutto per quanto riguarda la condivisione di questo lungo e appassionante processo d’ «interiorizzazione» giuridica delle Discipline. Su questo bisognerebbe forse ritornare.

Dietro le relazioni, dopo tre interventi programmati di Patrizia Mathieu, Ilaria Valenzi e Valdo Spini per suscitare la discussione, un dibattito molto vivace e tematicamente eterogeneo. Sui molti altri punti di dettaglio, si auspica una veloce pubblicazione delle due relazioni: riflettere sulla testimonianza e sull’eredità dei grandi non si può fare solo ascoltando, ma anche riflettendo attentamente sul dettaglio delle parole. Vorrei concludere – mi permetto – notando con un po’ di dispiacere il basso numero di partecipanti alla Gionata (un centinaio). Per qualcuno deve essere stata un’occasione mancata.