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Le luci della ribalta

Nella Grecia antica le Olimpiadi erano accompagnate dalla sospensione di ogni conflitto, pubblico e privato, pensata in particolar modo per gli atleti che dovevano attraversare territori nemici per recarsi a Olimpia a disputare le gare. A New York l’8 settembre del 2000 150 capi di Stato hanno sottoscritto un testo, la cosiddetta “Dichiarazione del millennio”, zeppa di buone intenzioni verso la nuova era che si stava aprendo e che stiamo vivendo oggi, con un intero paragrafo dedicato proprio alla tregua olimpica, da perseguire insieme alla pace e alla comprensione tra gli uomini anche attraverso lo sport.

Quante parole disattese, quanti sforzi inutili, di fronte alle immagini oggi di Aleppo o di Sirte come ieri di tanti altri luoghi, di tante altri lutti.

La politica appare spesso in ritardo nei confronti delle frontiere abbattute dalla potenza dello sport, di cui le competizioni olimpiche rappresentano il culmine, catalizzatrici di attenzioni a livello planetario. Sfide e abbracci fra atleti di Paesi in guerra fra loro, bandiere di nazioni in conflitto a sventolare vicine. Hanno fatto storia le sfide fra Unione Sovietica e paesi del blocco di Varsavia, in tempi di carri armati e invasioni, in cui un campo da gioco diventava arena in cui rivendicare molto altro. E poi le competizioni che hanno visto contrapporsi atleti di Stati Uniti e Iraq, Israele e Libano, delle due Coree e via dicendo, quasi sempre in un clima di rispetto, consapevoli che lo sforzo compiuto per giungere a simili livelli agonistici era degno di stima perché uguale al proprio. Proprio la condivisione di obiettivi e sudori è un viatico capace di creare sintonie che non hanno colore, religione o ideologia.

La più bella notizia delle Olimpiadi che si sono concluse domenica è stata la decisione del Cio, il Comitato olimpico internazionale, di includere una squadra senza vessilli e senza inno, senza confini e senza presidenti: il team dei rifugiati, 10 atleti provenienti dalla Siria, dal Congo, dal Sudan e dall’Etiopia. Davanti alla principale emergenza dei nostri tempi ancora una volta lo sport appare avanti anni luce nei confronti della politica. Per queste donne e questi uomini a sventolare è stata la bandiera con i cinque cerchi, simbolo universale di concordia. Il mondo non ha potuto fare a meno di vedere e di parlare di atleti senza una patria, simbolo degli oltre 60 di milioni di rifugiati, il numero più elevato dalla fine del secondo conflitto mondiale, costretti a lasciare case ed affetti per sognare un futuro migliore. Ora sta ai governanti dimostrare che questa non è stata solo una abile mossa mediatica, un gesto di magnanimità del ricco mondo occidentale, ma al contrario possa diventare stimolo per comprendere meglio uno dei principali drammi della nostra epoca. Forse inizieremo a vederli i migranti attorno a noi. Forse.

Ma dietro gli ori e i lustrini, al di là di impianti sportivi funzionanti a corrente alternata e terminati sul filo di lana, al di là di spalti semivuoti, abbiamo potuto vedere pochissimo della città, limitando il tutto a qualche immagine da cartolina del Pan di zucchero e del Cristo redentore.

Le favelas, le sacche di povertà enormi, l’inquinamento galoppante, nulla. Eppure sconvolgente era stato l’ottobre scorso il rapporto del Comitato delle Nazioni Unite per i diritti dell’infanzia che senza mezzi termini aveva denunciato le esecuzioni sommarie di bambini e adolescenti da parte delle forze di polizia per sedare la micro criminalità dei disperati delle baraccopoli, oltre un milione di persone le cui case in lamiera confinano con le ville e i palazzi extralusso . In Brasile ogni anno sono uccisi 30 mila giovani, nel 77% dei casi sono giovani e neri denuncia Amnesty International, e le Olimpiadi, così come i mondiali di calcio del 2014 sono stati occasione per un repulisti che spesso lascia impuniti i colpevoli (meno dell’ 8% degli omicidi vengono indagati). Alte mura separano questo dedalo di ghetti dal resto della città, dalle spiagge inquadrate in questi giorni dalle telecamere di tutto il globo. Eppure pressoché nulla ci è stato raccontato dell’altra faccia di questi giochi. Fiumi di denaro da una parte e oblio sul resto. Come del resto sta accadendo in Qatar, che per una folle decisione figlia di tangenti distribuite con generosità, ospiterà i mondiali di calcio del 2022. Circa 2 milioni di operai provenienti da Nepal, India e Sud-Est asiatico, ridotti in stato di schiavitù, con già oltre 1400 vittime nei cantieri aperti nel 2012 per costruire stadi che nessuno riempirà mai, probabilmente nemmeno nei giorni dei mondiali, figuriamoci dopo.

A Rio de Janeiro come sempre è folta anche la presenza di rappresentanti di varie confessioni religiose, molte delle quali impegnate proprio a sensibilizzare pubblico e atleti attorno al tema delle migrazioni. Una torcia, ribattezzata “della dignità”, è stata accesa e rimarrà in mostra a Morro da Mangueira, una delle favelas di Rio, da un’idea fra gli altri anche del Wcc, il Consiglio ecumenico delle chiese, il cui rappresentante presso l’Onu Rudelmar Bueno de Faria ha così raccontato l’iniziativa:«un’occasione per promuovere la dignità umana e il diritto ad un’esistenza non sofferente, basato sul principio cristiano degli uomini creati tutti uguali a immagine di Dio». Al contempo vari delegati, e fra loro Francisco De Assis Da Silva, primate della locale Chiesa episcopale anglicana, hanno denunciato «la cattiva gestione dell’intero evento, a partire dai ritardi e dalle disfunzioni degli impianti, alla massiccia azione repressiva che ha causato tensioni crescenti in ampie fasce di popolazione». Ma a noi poco o nulla anche di queste parole, di queste azioni. Ora che si sono spenti i riflettori del passaggio del carrozzone olimpico in questi budelli di fango e rifiuti nulla è cambiato né cambierà: nemmeno una stilla dei 15 miliardi di dollari utilizzati, 5 più del budget previsto, giungerà laggiù dove mancano fogne e scuole, sogni e futuro. Il vero tradimento dello spirito di Olimpia.

Immagine: via flickr.com