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Gad Lerner: «Bene i corridoi, interroghiamoci però sul nostro “pacifismo”»

«Se da una parte credo sia giusto compiacersi del fatto che con la tenacia e la perseveranza della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, della Tavola valdese e della Comunità di Sant’Egidio si sia riusciti ad imporre un principio giuridico – che era già scritto ma completamente disatteso, dal momento che ci sono persone vulnerabili che hanno il diritto di trovare riconoscimento dello status di rifugiati e di essere accolte nel nostro paese – e di essere riusciti a costruire e realizzare un esperimento in “in vitro” per via dell’esiguo numero di persone coinvolte nell’iniziativa, rispetto alle proporzioni catastrofiche della fuga in atto, dall’altra credo sia altrettanto importante porsi delle domande sul perché i “corridoi umanitari” siano così necessari», dice il giornalista Gad Lerner ospite alla serata pubblica promossa dalla Tavola valdese nel tempio di Torre Pellice alle 21, iniziativa a margine del Sinodo delle chiese metodiste e valdesi. 

«Certamente l’attivazione dei “corridoi umanitari” è stata importante – prosegue Lerner – un’iniziativa che rispetta inconfutabilmente i principi del diritto internazionale. L’applicazione di tali principi, come ad esempio la selezione in Libano delle persone considerate più vulnerabili e bisognose di aiuto, ne è la riprova. Dunque, se da una parte è legittimo essere soddisfatti, dall’altra è doveroso pensare che per realizzare un progetto di tale entità si sia dovuti ricorrere, seppur lodevolmente e fortunatamente, a un finanziamento non governativo come quello dell’Otto per mille dell’Unione delle chiese metodiste e valdesi. Sarebbe invece naturale pensare che questo tipo di operazioni e di sostegno debba essere una prerogativa dei governi dei singoli Stati. Il Ministero degli Esteri e quello degli Interni hanno sostenuto l’iniziativa, vero, ma il progetto è stato cercato, voluto e realizzato grazie alla caparbietà dimostrata dalle chiese evangeliche e dalla Comunità di Sant’Egidio, dunque dalla “società civile”. Credo che in una sede come quella del Sinodo delle chiese metodiste e valdesi sia giusto, e questa sera cercherò di farlo, affrontare anche le domande più scomode. Consapevole di farlo con chi ha già fatto un importante passo di testimonianza, di impegno e di profezia». 

Dunque?

«Resta inevasa una domanda di fondo: come possiamo intervenire “dentro” i conflitti che, inevitabilmente, provocano, come ultima conseguenza dopo il dolore, la sofferenza e la morte, le ondate di profughi in fuga? Questa sera cercherò di porre alcune domande – le stesse che mi pongo ogni giorno – al pubblico presente al tempio, lo farò a voce alta, domande forse imbarazzanti ma che non possiamo e non dobbiamo più cercare di eludere. Ad esempio sul significato del “nostro pacifismo”. Se fossimo intervenuti con un’azione di forza solo tre o quattro anni fa, dunque prima che nascesse l’autoproclamatosi Stato islamico (Isis), questo tragico epilogo si sarebbe potuto evitare? Avrebbe impedito o limitato la catastrofe umanitaria alla quale stiamo assistendo? Tragedia che ha già provocato centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi. Sono alcuni dei punti interrogativi che accompagnano la mia vita e spero che possano sviluppare la discussione questa sera e una seria riflessione in futuro». 

Ormai la situazione è questa. Come si potrebbe intervenire secondo lei? 

«La ferita è aperta, purulenta e continua a generare fughe di profughi e richiedenti asilo. La formula dei corridoi umanitari, attualmente, appare l’unica soluzione che può fornire un’alternativa alle fughe disperate, spesso gestite da scafisti senza scrupoli, assassini, trafficanti di uomini. Vediamo ogni giorno cosa accade ad Aleppo. Oggi piangiamo per la fotografia del piccolo Omran e prima abbiamo pianto per quella del piccolo Aylan, ma credo che si tratti, in fondo, di lacrime di coccodrillo. Aylan fuggiva l’estate scorsa da una terra martoriata come Kobane. Oggi piangiamo il piccolo Omran, ritratto martoriato dalle brutalità di Aleppo, città sotto assedio da anni. Queste lacrime non dicono altro che la risposta occidentale alle persone vessate da guerre e terrore è sempre la stessa: quella di restarvi per farsi massacrare».

Questa sera raggiungerà la “capitale dei valdesi”. Quali rapporti vi legano?

«Se ne avrò il tempo racconterò un aneddoto che mi portò in Val Pellice e che mi fece giungere e partecipare ad un culto tenuto nel Centro dell’Esercito della Salvezza di Bobbio Pellice. Certamente è importante la prossimità, una confidenza tipica che si esprime tra minoranze, simboleggiata materialmente dalla vicinanza tra la sinagoga e il tempio valdese a Torino, nel quartiere di San Salvario. Il fatto che la scuola ebraica di Torino, l’unica in Italia fortunatamente aperta anche ai non ebrei, sia frequentata anche da valdesi è un esempio del legame e di quanto i nostri rapporti spesso si intrecciano in cammini comuni. Il saper essere minoranza, capace di esprimere un pensiero universalistico e la condivisione del principio di laicità, senza ignorare né calpestare il sacro, sono la profezia e il legame di tutta una vita».

Presto tornerà in televisione, in Rai, con un nuovo programma. Di che si tratta?

«Erano sedici anni che non tornavo in Rai. Stiamo preparando una nuova avventura negli studi corso Sempione. Non credo di voler aver più niente a che fare con i talk show, formula televisiva logorata e inflazionata. Ritengo che la possibilità di poter fare inchieste, reportage, raggiungendo io le fonti, le persone e le notizie, possa far emergere gli aspetti che mi stanno più a cuore: le migrazioni, i rapporti con la sponda sud del Mediterraneo e con la cultura musulmana. Ovviamente sono contento di poter avere questa nuova opportunità professionale e di ritornare su Rai Tre, la prima rete televisiva dove feci la prima trasmissione intitolata “Milano, Italia”. Oggi, giocando un po’ con il passato ho deciso di intitolare la nuova: “Islam, Italia”. Un segnale di come, dopo un quarto di secolo, sia cambiata la nostra società». 

Foto P. Romeo