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La profezia dell’ecumenismo

Si è tenuta dal 25 al 30 luglio la 53° sessione del Segretariato attività ecumeniche (Sae), ospitato per il secondo anno consecutivo nella Domus Pacis di Santa Maria degli Angeli, alle pendici della collina su cui si arrocca l’incontenibile bellezza di Assisi. A trent’anni dalla «preghiera mondiale»  convocata da Papa Giovanni Paolo II proprio su quelle terre, è nell’epicentro della spiritualità francescana che il Segretariato ha scelto di tornare nel 2016: l’anno del Giubileo della Misericordia, del Sinodo panortodosso, della vigilia del Cinquecentenario della Riforma protestante. Un anno difficile anche quando vissuto dalle nostre fortunatissime latitudini: da un’Italia e da un’Europa impreparate al diverso che bussa alle nostre porte, tentate da vecchi populismi e inquietanti ottiche nazionali.

In un contesto occidentale di debolezza ideale, politica e spirituale, la ricerca di un linguaggio ecumenico per annunciare quanto «veduto e udito» (1 Gv. 1,3 ha ispirato il titolo della Sessione): è il prezioso sforzo cui è chiamata a cimentarsi l’intera comunità dei credenti. «L’ecumenismo è la profezia di oggi» – ha dichiarato al termine dei lavori il teologo valdese Paolo Ricca – «è una profezia giovane, appena nata se la si confronta con i mille anni di separazione tra Oriente e Occidente e i 500 di separazione tra cattolici e protestanti». Tradizione, Riforma e Profezia sono appunto i nuclei di un percorso che il SAE intende sviluppare nei prossimi tre anni: il 2017 toccherà alla Riforma, quest’anno si è partiti dalla «tradizione», o meglio, dal problema della trasmissione della fede. «Di generazione in generazione» è il titolo che ha riunito tre ebrei al primo tavolo di discussione (lo storico Bruno Segre, l’editore Daniel Vogelmann e la giovane Micol Anticoli), mentre di «attaccamento alle radici e apertura al futuro» hanno dibattuto la pastora battista Anna Maffei, lo psicanalista Francesco Stoppa e il teologo cattolico Carlo Molari. Al cuore dell’intera Sessione il pomeriggio di giovedì 28, quando lo scrittore Brunetto Salvarani, la teologa musulmana Sharzad Houshmand Zadeh e il valdese Paolo Naso, politologo, hanno toccato da diverse angolazioni lo spinoso nodo della tradizione vissuta come fattore identitario che si radicalizza nel terrorismo religioso. Nel celebrare l’intuizione interreligiosa di papa Giovanni Paolo II, Zadeh è partita dalla sura del Corano intitolata Il tempo per ricordare che «la verità si può abbracciare meglio insieme», ammesso che si sia capaci, come fece S. Francesco, di «non arrestarci dinanzi a nessuna diversità». Dal canto suo Brunetto Salvarani ha contrapposto al «paradigma di Assisi» le religioni «vissute come mero elemento identitario, incapaci di produrre un’etica planetaria», un solco in cui si è inserita l’ampia analisi di Paolo Naso, secondo il quale l’origine del nuovo terrorismo religioso che ha raggiunto l’Europa sarebbe da ricercare nell’«islamizzazione del disagio» che affligge i nomadi esistenziali della globalizzazione, miscelando «grandi scenari geopolitici e minuscole tragedie personali». «La presunzione di correità dei fedeli musulmani con il terrorismo – ha aggiunto Naso – non spiega il fenomeno, denuncia piuttosto il nostro pregiudizio».

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La sera prima, anche il pastore battista Luca Maria Negro, presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, aveva scelto di affrontare il contemporaneo, incentrando il culto di Santa Cena da lui presieduto sul progetto ecumenico dei «Corridoi Umanitari». «La base, l’ispirazione biblica del progetto che vede insieme cattolici di S. Egidio ed evangelici italiani ci viene da Isaia 40, 1-11: “Preparate nel deserto una via per il Signore, tracciate nella steppa una strada per il nostro Dio”. In questi anni i nostri operatori hanno passato molte notti al molo dell’isola di Lampedusa, notti e giorni a scrutare una distesa che gli antichi chiamavano “mare nostrum”, ma che oggi sembra estranea, pericolosa, ostile. Ebbene, è proprio scrutando questo deserto d’acqua con l’ansia di chi attende una tragedia annunziata che le parole di Isaia ci sono tornare alle mente: ci siamo detti che non potevamo limitarci a denunciare, che non potevamo stare fermi ad attendere la tragedia quotidiana: dovevamo fare qualcosa. Fare qualcosa per preparare la via del Signore, per garantire un passaggio sicuro attraverso queste acque desertiche, almeno ad alcuni di loro che fuggono dalla guerra e dalla povertà. Non abbiamo certo la pretesa di risolvere noi da soli la crisi migratoria. Questo progetto ecumenico è un piccolo segno concreto che si affianca all’annunzio dell’Evangelo, alla denuncia del male e dell’ingiustizia; nell’attesa che, quando Dio nelle sue vie insondabili lo vorrà, si realizzi la promessa della sua Parola».

La liturgia protestante non è stata l’unica a tenere banco al calar del sole. La sera prima  l’arcivescovo di Assisi Domenico Sorrentino aveva celebrato la messa, mentre il giorno seguente, nella cornice mozzafiato offerta alla basilica di S. Francesco, il prete rumeno Gabriel Codrea ha guidato una celebrazione in italiano dei Vespri ortodossi: «Il vespro chiama a pregare per la pace nel mondo, per il prossimo, per l’abbondanza dei frutti della terra, per la salubrità dell’aria. La bellezza del mondo creato da Dio ci “costringe” a prendere atto della nostra caduta, della nostra lontananza da Dio; ci costringe ad aprire gli “occhi della nostra mente” e ci prepara per la conversione, per tornare all’essenziale».

Anche quest’anno i cinque giorni di preghiera, riflessione teologica e ricarica spirituale hanno fornito ai circa 250 corsisti iscritti ai gruppi di lavoro l’occasione per incontri individuali, approfondimenti culturali, piacevoli momenti di condivisione. In fondo, da più di mezzo secolo, la sessione annuale del SAE insegna proprio questo: il piacere dello stare insieme «in un’unità che non uniforma», per dirla con l’insuperabile sintesi di Paolo Ricca, chiamato a tirare le somme della settimana al fianco di  Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose. Un piacere e una fatica, quella dell’«unità nella diversità», che forse non rappresenta una formula nuova. Ma che in un mondo più dilaniato che interconnesso si conferma in tutta la sua urgenza e attualità.