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Shakespeare al Ghetto di Venezia

Quale giustizia, per i discriminati e coloro che sono oggetto di pregiudizio. Quale memoria per le vittime. Interrogativi sempre attuali, che hanno avuto una declinazione particolare a Venezia, nell’ultima settimana di luglio, nell’ambito delle manifestazioni che ricordano i 500 anni dalla creazione del ghetto di Venezia.

Una settimana densa, a fine luglio, visitata anche dalla neoeletta presidente dell’Unione delle comunità ebraiche, Noemi Di Segni. Molte le iniziative, considerando anche la mostra a Palazzo Ducale sul rapporto intenso e secolare tra gli ebrei e Venezia e il convegno sul «Libro ebraico». Ma le più significative sono state questa volta quelle legate alla nota opera di Shakespeare Il mercante di Venezia, con la tormentata vicenda dell’ebreo Shylock. È stata presentata una nuova traduzione, a cura dell’anglista docente all’università veneziana di Ca’ Foscari, Dario Calimani. Un lavoro, come ha precisato il suo autore, che cerca di ritrovare la complessità e le contraddizioni del testo. Sullo sfondo si intrecciano le difficoltà culturali di epoca elisabettiana nei confronti dello «straniero» (che appaiono incredibilmente attuali…) e i pregiudizi antiebraici molto presenti nella letteratura, anche popolare, dell’Inghilterra dell’epoca.

Il testo, secondo Calimani, va letto come il tentativo di una società tormentata dalle novità e da una quotidianità infelice (quella inglese) di cercare un confronto quanto mai complesso con una società idealizzata, rappresentata da una Venezia culla della giustizia e della tolleranza largamente inesistente nella realtà. Un testo che risulta «amaramente incompiuto», perché alla fine nessuno dei protagonisti riesce, ricorda Calimani, a liberarsi dalle proprie chiusure, dai propri egoismi, per entrare veramente in dialogo con l’altro.

Ma l’opera di Shakespeare, di cui ricorre quest’anno il 400° anniversario della morte, ha ispirato anche un’altra iniziativa, coordinata questa volta da Shaul Bassi, collega di Calimani a Ca’ Foscari. Una rappresentazione ambientata nei luoghi suggeriti dal Grande Bardo, ovvero in quel ghetto di Venezia, che conosceva solo attraverso racconti e resoconti di viaggiatori, ma non di persona. Con la regia di Karin Conrood, questo Mercante ha cercato di restituire la complessità del testo proponendo non solo attori che recitavano anche affacciandosi dalle case del campo e utilizzando lingue differenti (veneziano, inglese e alcune delle varianti che venivano utilizzate proprio nel quartiere degli ebrei veneziani all’epoca della storia). Ma restituendo soprattutto una raffigurazione di Shylock affidata a cinque attori differenti, l’ultima una donna. Un modo plastico per ricordare come di tutti i personaggi, questo sia oltre che il più bistrattato, pure il più sfaccettato, il più tormentato, il più emblematico per i nostri tempi.

Sei rappresentazioni nel Campo del Ghetto, per poi andare in tournée, in Veneto e nel resto d’Italia. Accanto alla messa in scena del Mercante, in un pomeriggio dedicato alla legge e al diritto, c’è stata la riproposizione del «processo all’ebreo Shylock» nella suggestiva sala grande della Scuola di San Rocco. Confronto serrato tra avvocati e studiosi italiani e statunitensi, tenuti a bada con piglio molto deciso dalla giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti Ruth Bader Ginsburg e con una giuria d’eccezione, di cui ha fatto parte anche l’ambasciatore Usa in Italia, John R. Philips. Un’apertura dei lavori scintillante, con Murray Abraham (l’attore divenuto celebre anche in Italia per aver impersonato il musicista Salieri in Amadeus del regista Milos Forman) a impersonare Shylock nel notissimo monologo e a duettare con Ruth Bader.

Ma non è tanto il verdetto finale, che ribalta la condanna e soprattutto l’obbligo alla conversione per l’ebreo, a essere significativo, quanto il complesso delle diverse argomentazioni. Valutazioni «in punta di diritto» che hanno permesso di capire come e quanto anche la scienza giuridica sia stata (e sia ancora) influenzata dai pregiudizi, dalla «ragion di stato», dai rapporti di forza all’interno della società. Con un approfondimento sulle norme veneziane, che più di altre garantivano diritti e uniformità di giudizio agli ebrei, «stranieri» e migranti per eccellenza, ma che nel corso dei secoli non avevano impedito comunque accanimenti contro singoli e comunità, chiaramente dettati da pregiudizi ed esigenze diplomatico-mercantili. 

Il ricordo di una chiusura, quella del ghetto, si è trasformato una volta di più nella volontà di apertura e dialogo, che nascono soprattutto dalla conoscenza e dal rispetto comuni. Caratteristiche che a Venezia trovarono, sia pur in modo discontinuo e con caratteristiche differenti, anche gli «eretici». E il prossimo anno, in occasione di un altro cinquecentenario al quale ci stiamo da tempo preparando, ci sarà sicuramente l’occasione per approfondire l’argomento.