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Vento di cambiamento nel mondo della moda

Elina Cerell è una ragazza di Helsinki che dopo aver lavorato tanti anni nel campo pubblicitario e gestito diversi progetti, aveva in mente di creare un marchio di abbigliamento sostenibile. Ha quindi postato un video su YouTube in cerca di persone che potessero condividere questo obiettivo. Silvia Osella è una giovane designer piemontese che lavora nel campo del textile design per grandi gruppi di moda come Zara o Adidas, e che a un certo punto ha avuto voglia di cambiare e rendersi più indipendente, anche dal punto di vista della filosofia che sta dietro al mondo del design e della moda. Silvia ha scritto a Elina e insieme hanno cominciato a pensare a un modo diverso di creare capi d’abbigliamento. Il pensiero alla base di tutto è molto semplice e molto condivisibile: quello che attualmente c’è in Europa a livello di moda sostenibile non è particolarmente bello né moderno. Gli appassionati di moda riscontrano sempre uno scarto tra quello che è sostenibile e il design e le pochissime alternative sono estremamente costose. Elina e Silvia, con la quale abbiamo parlato, hanno quindi deciso di crearsi da sole l’alternativa.

Cosa si intende con “sostenibile” quando si parla di moda?

«L’industria della moda è la seconda più inquinante al mondo, e sono pochissimi a saperlo. Ha un forte impatto per via dei coloranti che vengono usati, per via degli scarti e per tutti i tessuti che non vengono usati e poi mandati al macero. Anche dal punto di vista etico, come sappiamo, ormai le grosse catene hanno fatto sì che gli standard dei lavoratori si abbassassero sempre di più mettendo a rischio la loro stessa incolumità; il caso più eclatante è avvenuto qualche anno fa in Bangladesh dove è crollata una palazzina molto grossa, sede di una fabbrica in cui venivano realizzati prodotti per grossi marchi, provocando tantissime vittime tra le persone che lavoravano in condizioni pessime. Dopo quella tragedia il mondo della moda ha cominciato a svegliarsi un poco. È stato creato un movimento che si chiama Fashion Revolution per chiedere ai grossi marchi di essere più trasparenti e far capire in che condizioni vengono realizzati i propri capi, come vengono fatti e con quale impatto sull’ambiente».

Quali sono i fattori più sensibili?

«Quelli legati alle condizioni dei lavoratori e quelli legati ai materiali. Le fibre che oggigiorno vengono utilizzate dalle catene più grandi hanno un impatto sull’ambiente estremamente pesante: spesso il poliestere, che è una fibra ottenuta dal petrolio, ha delle lavorazioni molto inquinanti. Anche soltanto per stampare del cotone lo spreco di inchiostri e l’inquinamento della acque sono altissimi. Il cotone, che noi pensiamo essere la fibra più naturale, richiede dei consumi di acqua pazzeschi, quindi perfino la fibra considerata naturale per eccellenza non è più tanto amica dell’ambiente come potremmo pensare. A questo si aggiunge l’inquinamento legato ai trasporti».

Come iniziare a sostenere dei cambiamenti in questo senso nel campo della moda?

«Innanzitutto il singolo potrebbe cominciare a chiedersi come sia possibile che una maglietta arrivi a costare 5,99 euro, o meno; potrebbe cominciare a chiedere ai grossi marchi di essere più trasparenti su dove producono e come lo fanno, che fibre utilizzano e queste fibre da dove vengono. Purtroppo in questo ambito c’è moltissima disinformazione. Così come stiamo prendendo più consapevolezza rispetto ad altre tematiche come la mobilità e il cibo, si spera che questo sia il prossimo settore in cui la gente inizi a farsi più domande e che quindi i grossi gruppi siano obbligati a dare molte più risposte».

Com’è partito il vostro progetto di moda sostenibile?

«L’altra ragazza, Elina di Helsinki, ha deciso di registrare un video su YouTube, proprio perché pensava di avviare il progetto in un’ottica un po’ più innovativa anche rispetto ai mezzi di informazione tradizionali. Ha messo online questo video in cui chiedeva a persone come lei, che magari avessero avuto esperienza nel campo dell’abbigliamento, se fossero interessate a creare un marchio con la sua stessa visione. Io l’ho trovato e ho deciso di scriverle. Da quel momento abbiamo cominciato a lavorare a distanza con Skype e attraverso piattaforme sempre diverse: Pinterest per le ispirazioni, WhatsApp per le comunicazioni veloci, e altri modi per condividere aggiornamenti e produzione. Si è aggiunta a noi un’altra ragazza che disegna i modelli e insieme siamo partite in questa impresa, con un budget bassissimo per cercare di creare un marchio sostenibile, con il più basso impatto ambientale possibile e soprattutto molto trasparente, nel senso che il nostro obiettivo e fare in modo che il consumatore possa vedere tutti i passaggi della produzione, possa avere accesso a tutte le informazioni che comprendono dove è coltivata la fibra a come viene cucito il capo, in tutti i suoi passaggi. Un lavoro che richiede molto tempo ed energie e anche tanta ricerca: abbiamo passato un anno e mezzo soltanto a cercare i fornitori perché gli standard fossero altissimi, per poterli conoscere personalmente, per far si che i passaggi fossero pochi, un po’ come il concetto del “km zero” per il cibo. Abbiamo cercato di fare in modo che fosse tutto europeo, dal seme biologico e organico a chi cuce i capi».

Perché avete scelto il nome Iluut e a che punto è il progetto?

«Iluut deriva dalla parola che in finlandese significa “vento”. Ci tenevamo fosse una parola finlandese perché è partito tutto da li, poi perché è una cosa trasparente, una cosa che più o meno lentamente porta un cambiamento. Il progetto è avviato e verso la metà di agosto partirà il crowdfunding con il quale si potranno preordinare i capi, finanziando il progetto e dando un contributo per sostenere questa visione, perché per noi è Iluut è soprattutto questo: portare avanti un cambiamento e dare un messaggio forte. Se questo progetto dovesse avere un grosso seguito, così come è successo negli Stati Uniti, dove qualche marchio si è dato un indirizzo del genere, sarebbe un segnale molto forte rivolto ai grossi gruppi e che sensibilizzerebbe le persone su quello che bisogna chiedere al mondo della moda».

Com’è la collezione?

«Lo stile ha un impatto molto pulito e molto nordico. Il nostro concetto è quello di tornare a fare dei capi fatti bene, di altissima qualità e che durano nel tempo; linee pulite e molto semplici che non ci si stufi di indossare ma diventino dei nuovi classici da portare per molti anni, un po’ come facevano i nostri genitori. Per ora partiremo con tre camicie e un vestito effetto denim. Questi sono i primi capi disponibili e poi speriamo di poter fare sempre di più e ingrandire la produzione. Abbiamo iniziato da poco ma c’è già un buon seguito e vogliamo continuare a chiedere costantemente a chi ci segue di interagire, di dirci cosa vuole, cosa ne pensa, cosa si aspetta da noi e che scelte farebbe in prima persona per migliorare questo settore. Tutte le informazioni saranno su iluut.com oppure seguendoci su Facebook o Instagram».