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La pena non è una vendetta

Il 28 luglio, nella sala stampa della Camera dei Deputati, è stato presentato il pre-rapporto 2016 dell’Associazione Antigone sullo stato di salute delle carceri italiane e sulle condizioni della popolazione carceraria. L’associazione, che ha ricevuto anche un contributo dell’Otto per mille valdese, si occupa delle condizioni di pena negli istituti penitenziari italiani e collabora anche con il gruppo di lavoro su carceri e giustizia della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia.

Nel 2013 l’Italia è stata condannata da parte della Corte Europea dei Diritti Umani per le condizioni degradanti di detenzione derivanti dal sovraffollamento e dall’assenza di rimedi effettivi contro la situazione. «Allora avevamo 68 mila detenuti – racconta Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone – sono state messe in campo riforme importanti in termini di riduzione dell’impatto della custodia cautelare, delle misure alternative e così via e la popolazione detenuta è fortunatamente diminuita di 15 mila unità».

Cosa è accaduto nell’ultimo anno?

«È come se si fosse fermato il trend: anzi, sembra abbia ripreso a risalire la popolazione detenuta. Nell’ultimo anno abbiamo assistito a una crescita di 1.300 unità, numero che non mette in crisi il sistema, ma che va preso in considerazione. L’effetto deflattivo delle riforme si è esaurito, e la popolazione carceraria è tornata a crescere: questo significa condizioni di vita più complicate, spazi ridotti, minore attenzione da parte degli operatori che si devono dividere tra più persone. Attenzione a questi dati, dunque, per capire perché è avvenuta la crescita e chi ha colpito maggiormente. Non c’è neppure una maggior attività criminale, perché non ci sono state né innovazioni normative tali da giustificarla, come l’introduzione di nuovi reati, né un aumento delle denunce. Il punto forse è dato dal fatto che alcune norme hanno esaurito il loro effetto: per esempio la liberazione anticipata speciale, che adesso non è più una misura in vigore, ma non solo. Forse anche perché il clima che respiriamo sui temi dell’immigrazione fa sì che l’operatività delle forze di polizia sia più portata a eseguire arresti. Infatti, dei 1.300 nuovi detenuti, un’ampia percentuale è di immigrati. La crescita è tutta data dalla custodia cautelare».

Avete anche proposto una riforma del regime di isolamento: cosa prevede?

«Partiamo dalla consapevolezza che l’isolamento fa male alle persone, alla loro salute e integrità psicofisica. L’isolamento è una componente della vita penitenziaria che a volte diventa una sanzione aggiuntiva molto dolorosa. In più sono troppi i casi drammatici che abbiamo seguito in questi anni avvenuti nelle sezioni di isolamento: suicidi o violenze, per esempio. Quello che vogliamo è cercare di ridurne al massimo l’uso, la durata di applicazione, impedirne l’uso per i minori o per le categorie vulnerabili: dall’altra parte che chi viene sanzionato possa difendersi. L’isolamento è destabilizzante e può essere devastante, si fanno i pensieri più brutti su se stessi».

Tre mesi fa si sono conclusi gli Stati generali dell’esecuzione penale. Quali frutti ci saranno nel breve periodo?

«Eravamo presenti e abbiamo molto apprezzato l’impegno del Ministero di aprire una grande fase di partecipazione ai cambiamenti e alle riforme per una maggiore umanizzazione del sistema della pena. La preoccupazione è che tutte quelle proposte, molte delle quali da noi condivise, non riescano a diventare ipotesi di riforma dell’ordinamento penitenziario. C’è il rischio che possano rimanere sulla carta, poiché la proposta di legge che sta in Senato è molto rallentata nel suo iter: questo evidentemente perché si trova all’interno di una proposta più ampia, nella quale si parla anche di intercettazioni e prescrizione, quindi temi di delicatissimo interesse politico».

Nell’ultimo rapporto si parlava delle minoranze in carcere: un ragionamento che prosegue?

«Sì, pensiamo che vadano individuati provvedimenti specifici per particolari categorie di detenuti. Abbiamo un sistema pensato per un detenuto che molto spesso non esiste più: per esempio un detenuto italiano, normalmente inserito, che abbia una casa fuori e che possa avere una detenzione domiciliare con facilità, una famiglia, un welfare del territorio che si occupa di lui. Tutto questo non esiste più, ora è tutto frammentato, disgregato, la persona spesso è sola, straniera, con molti problemi: questo va intercettato con uno sforzo epocale senza precedenti, che pagherebbe in termini di sicurezza. L’individualizzazione profonda del trattamento per garantire diritti e libertà, come quelle religiose per esempio. Questo è l’unico, vero e duraturo antidoto contro la radicalizzazione, oltre a evitare di trasformare i criminali in vittime, perché altrimenti creiamo “il mostro” che ci si rivolgerà contro».

Guardando fuori dall’Italia, si è tornato a parlare di pena di morte come punizione ultima: il caso della Turchia è emblematico. Che ne pensa?

«Un argomento che ci sta particolarmente a cuore: sulla pena di morte ci sono temi etici, giuridici, di politica criminale che testimoniano tutti insieme come la pena di morte sia fuori dallo stato di diritto, fuori dalla modernità, dalla democrazia, dalla ragionevolezza, dall’etica sia laica che religiosa. Però torna, e questo succede perché c’è un’idea di pena come vendetta, non funzionale alla ricostruzione di legami sociali. Una pena nelle mani del potere che possa essere gestita come una clava pubblica: dobbiamo espungere dalla società e dallo stato di diritto l’idea che la pena possa essere una vendetta. Se nel dibattito pubblico interno usiamo parole smisurate, violenza verbale e comunicativa, creiamo nell’opinione pubblica il bisogno di vendetta, che si tramuta giuridicamente nella pena di morte. Abbiamo tutti la responsabilità di un dialogo più civile».

Foto: via Pixabay