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L’India verso un codice civile laico o confessionale?

In India le leggi che regolano la vita privata delle persone dipendono dalla comunità religiosa di appartenenza. Al fine di evitare conflitti di matrice religiosa il governo britannico aveva infatti emanato vari codici, distinti in base al credo personale e che regolavano le questioni di matrimonio, divorzio, eredità e adozione. In questo modo ad esempio il codice di statuto personale musulmano venne emanato nel 1937.

Dopo l’indipendenza ottenuta nel 1947, le forze progressiste della grande nazione sub-asiatica hanno tentato di eliminare tali differenziazioni, spesso discriminanti nei confronti delle donne (divorzi unilaterali, eredità diseguali, poligamia) in nome di un codice civile finalmente laico e unico, ma i contrasti hanno sempre impedito questa opzione.

Luogo di origine di religioni quali induismo, buddismo, giainismo, e sikhismo, l’India ospita numerose comunità religiose: secondo il censimento del 2001, gli hindu sono la maggioranza (80,5%), seguiti da musulmani (13,4%), cristiani (2,3%) e sikh (1,9%). Lo stato indiano si professa laico e la Costituzione prevede la libertà di culto; tuttavia, si sono verificati episodi di violenza e discriminazione che, in alcuni casi, rimangono impuniti.

La comunità e le forze politiche induiste, forti di una larga maggioranza nel Paese e in parlamento, ad intervalli più o meno regolari tornano sul tema della necessità di dotare la nazione di un unico codice civile, come accade nei moderni Stati dell’oggi, plasmato però sui principi Hindu.

A lanciare un allarme sono i gruppi di minoranza che vedono nella sostanziale estensione a tutta la popolazione del codice civile Hindu un pesante rischio di assimilazione e snaturamento.

E’ il Bjp, il Bharatiya Janata Party, a spingere soprattutto per tale soluzione, prevedendo nel programma proprio una progressiva induizzazione della società, soprattutto agendo nei confronti del panorama musulmano. E’ stata questa una delle grandi promesse che hanno portato al trionfo elettorale del 2014, e da allora le minoranze sono sul chi vive.

Il 4 luglio il cardinale George Alencherry, arcivescovo maggiore della Chiesa siro-malabarese, il principale ramo della Chiesa cattolica di rito orientale in India, assai diffusa nelle regioni del Kerala e del Tamil Nadu, ha da un lato affermato che tale riforma «potrà contribuire a rafforzare l’idea di nazione e contribuire a sviluppare l’unità del popolo. Tuttavia la speranza è che i legislatori tengano conto delle tradizioni e convenzioni specifiche per ogni gruppo religioso, per una soluzione di buon senso frutto de dialogo e non dell’imposizione».

Non semplice il compromesso fra una nazione policulturale che deve logicamente dotarsi di strumenti di governance moderni e validi per tutti, sempre a rischio però di pericolose derive settarie e discriminanti, se le leggi della maggioranza diventato tout court le leggi di tutti, senza dialogo, senza mediazioni, sancendo in pratica il fallimento della politica, l’arte del compromesso. L’India, nazione di oltre un miliardo di abitanti, con crescita economica a due cifre che crea sacche di povertà spaventosa in ampie fette della popolazione, esclusa dal boom di questi anni, pare in bilico fra slancio nella modernità e ataviche recrudescenze. Non mancano infatti gli assalti alle chiese e ai luoghi di culto, cristiani in particolare, e riconversioni forzate di cittadini che avevano scelto una fede differente da quella induista. La sostanziale impunità nei confronti degli autori di episodi di violenza e intolleranza sono una ampia premessa che poco di positivo fanno presagire di fronte al desiderio di mutare la carta costituzionale.

Immagine: By Ankitesh Jha – Own work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=20204193