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«L’unico vero golpe oggi in Turchia è quello di Erdogan»

Le conseguenze del fallito colpo di Stato che nel fine settimana ha fatto pensare che la storia in Turchia fosse sul punto di ripetersi non si sono fatte attendere: nel giro di poco più di tre giorni sono oltre 12.000 le persone arrestate, e tra queste circa 8.000 militari, ma anche giudici, impiegati e poliziotti accusati di complicità con l’ex alleato Fetullah Gülen e il suo movimento, Hizmet, ritenuto da Erdogan uno “Stato parallelo”.

Nonostante le cancellerie europee abbiano subito dichiarato il sostegno al governo di Erdogan, definito “democraticamente eletto”, i rapporti internazionali della Turchia sono instabili, e le aperture del presidente alla reintroduzione della pena di morte per fare “piazza pulita” degli oppositori allontanano Ankara dall’Europa.

A pochi giorni dagli avvenimenti che hanno consegnato ancora più potere al presidente Erdogan, è difficile capire cosa ci si possa attendere, ma sicuramente siamo di fronte a una svolta nel ruolo che l’esercito ha sempre svolto nella politica turca. «Dopo 14 anni di governo dell’Akp – racconta il professor Luca Ozzano, ricercatore all’università di Torino e coordinatore dello gruppo di lavoro su politica e religione della Società Italiana di Scienza Politica – il ruolo politico dell’esercito, così come il suo potere, sono stati ridotti. Da un lato questo dev’essere salutato come una cosa positiva per la democrazia turca, dall’altro però ha anche rappresentato la rimozione di un ulteriore freno al potere assoluto che Erdogan oggi possiede».

Che cosa rappresenta, o rappresentava, l’esercito per questo Paese?

«Sin dalla creazione della repubblica con Atatürk, nel 1923, l’esercito turco si è sempre considerato ed è sempre stato considerato da molti come il guardiano dell’integrità e della laicità dello Stato, sia contro le aspirazioni secessioniste, come quelle dei curdi, sia contro gli orientamenti religiosi. Storicamente, nel momento in cui l’esercito vedeva che c’era, secondo lui, una deviazione dalla “giusta via”, era necessario intervenire. L’ha fatto tre volte: nel 1960, nel 1971, nel 1980 e poi una quarta, con quello che possiamo considerare un “mezzo golpe” di nuovo nel 1997. Insomma, i colpi di Stato sono stati una costante della storia turca del Novecento. Per chi studia scienza politica si parla di questo caso come di un caso di “militari moderatori” che lasciano svolgere i giochi politici ma sono pronti a intervenire per bloccare tutto quando secondo loro si segue una strada sbagliata. Per esempio, nel 1997, quando c’è stato questo “mezzo colpo di Stato”, avvenuto in modo incruento, l’intenzione era proprio deporre il Partito del Benessere, un partito islamista che era l’antenato dell’Akp di oggi».

In questo caso l’esito è stato molto differente rispetto al passato. Si può leggere nel fallimento di questo golpe la fine del ruolo di garante della Costituzione o dell’integrità dello Stato che l’esercito ha sempre avuto?

«Sicuramente sì, almeno se consideriamo il depotenziamento dell’esercito che c’è stato negli ultimi anni. Dopo 14 anni di governo dell’Akp il ruolo politico dell’esercito, così come il suo potere, sono stati ridotti, quindi da un lato questo dev’essere salutato come una cosa positiva per la democrazia turca, dall’altro ha anche rappresentato la rimozione di un ulteriore freno al potere assoluto che Erdogan oggi possiede».

Il governo turco ha subito puntato il dito contro il predicatore Fetullah Gulen, ma è già possibile capire se la responsabilità vada davvero cercata lì?

«Onestamente non so se si capirà mai nulla, del resto la recente storia turca è stata molto difficile da capire. Prima, a metà degli anni Duemila, sono stati portati avanti dei processi nei confronti di vertici dell’esercito, e questi processi sono stati celebrati grazie alla collaborazione tra l’Akp e il movimento Hizmet di Fetullah Gulen, poi alcuni anni dopo il governo è entrato in rotta di collisione con Gulen e si è nuovamente alleato con l’esercito, affermando che i casi di cui sopra erano stati montati ad arte proprio da Gulen. Poco dopo, e arriviamo agli ultimi giorni, l’esercito tenta il colpo di Stato e il governo afferma che è stato ispirato dallo stesso Gulen, storico nemico dell’esercito. A oggi è davvero difficile fornire una chiave di lettura».

È comunque un’ipotesi plausibile?

«Non lo sappiamo, perché secondo la versione del governo la responsabilità va cercata lì, magari con la collaborazione dei servizi segreti statunitensi. A dire il vero, però, sono anni che il governo accusa di qualunque cosa il movimento di Fetullah Gulen, che peraltro è stato oggetto di una feroce persecuzione in Turchia: gli sono stati chiusi i giornali, le università, espropriate le imprese. Sicuramente il movimento Hizmet si oppone al governo turco, ma non credo che sia l’origine di tutti i mali come viene presentato da Erdogan».

Il fallimento del colpo di Stato portato avanti da chi storicamente si è ritenuto il guardiano della laicità significa che anche a livello popolare la Turchia di oggi è uno Stato meno laico rispetto al passato?

«Diciamo che c’è una maggioranza che un tempo era silenziosa ed era religiosa anche in passato, ma viveva all’interno di un regime laico. Ora questa maggioranza ha preso il potere. Il regime di Erdogan si sta avviando sempre più verso l’autoritarismo, e questa maggioranza un tempo silenziosa e oggi sostenitrice del governo tutto sommato è d’accordo con il governo e accetta anche l’involuzione di questi ultimi anni. Tuttavia non ne farei tanto un discorso di laicità o comunque non solo di laicità, quanto di democrazia. È andato al potere un partito che ha un orientamento che è in linea con quello di una fetta consistente della popolazione e questo gli ha permesso di portare avanti un irrigidimento e un percorso verso l’autoritarismo, almeno a partire dalle elezioni del 2015, che sono state visibilmente manipolate».

È stato quello il punto di non ritorno?

«Sì, sicuramente. C’era stata una prima tornata elettorale nella quale il partito Akp aveva vinto, ma non aveva la maggioranza assoluta in Parlamento. Erdogan, che era già presidente della repubblica, ha fatto in modo che non venisse formato un governo di coalizione e che si tornasse al voto in una situazione di forte tensione, in cui ci sono stati anche degli attentati, la cui responsabilità tra l’altro è ancora ignota. Pare oltretutto che in molte zone, soprattutto curde, gli elettori siano stati intimiditi, e quindi l’Akp ha riavuto la sua maggioranza assoluta. Ecco, secondo me a partire da quella data la Turchia non è più da considerare pienamente una democrazia. Va detto che fino a quel momento tutto si era svolto nell’ambito delle regole democratiche, fino alle elezioni a presidente della repubblica nel 2014. Dalle elezioni del 2015 si va oltre, si utilizzano strumenti che non sono più quelli della democrazia».

La stagione dei golpe è finita?

«Difficile dirlo. La cosa sicura è che Erdogan ha approfittato del golpe per un ulteriore giro di vite, per un’ulteriore epurazione nei confronti di migliaia di esponenti dell’esercito e della magistratura che sono stati in questi giorni purgati e in molti casi incarcerati. Ritengo che Erdogan approfitterà di questa occasione anche per allearsi con i settori dell’esercito che sono a lui favorevoli, e quindi per scongiurare questi tentativi, quindi non vedrei una forte probabilità di golpe. L’unico golpe che vedo oggi in Turchia è quello che sta facendo Erdogan approfittando anche di quello che è successo per un ulteriore irrigidimento del suo potere».

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