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A tre anni dal golpe “democratico”, in Egitto la sparizione è sistema

Poco più di tre anni fa, era il 3 luglio 2013, l’esercito egiziano coglieva l’occasione delle proteste di piazza di milioni di cittadini al Cairo e in tutto il Paese per deporre l’allora presidente Mohamed Morsi, eletto dodici mesi prima e sostenuto dai Fratelli Musulmani. Un anno dopo, il generale Abdel Fattah al-Sisi diventava presidente dell’Egitto con quasi il 97% dei consensi, inaugurando una stagione che per molti versi ricorda quella del dittatore Mubarak, deposto nel 2011 dalle proteste popolari delle “primavere arabe”, che a cinque anni di distanza rimangono un’immagine sbiadita.

L’anniversario del colpo di Stato del 2013, salutato in Occidente come “democratico”, è l’occasione per riflettere sul livello di democrazia nel Paese: l’Egitto è ancora instabile e le politiche di al-Sisi hanno ormai fatto abbandonare anche agli osservatori più ottimisti l’ipotesi di una transizione democratica.

Secondo Amnesty International, che in questi giorni ha pubblicato un rapporto su quello che viene chiamato “sistema Egitto”, ormai le sparizioni forzate sono uno strumento per contenere il dissenso, come accaduto nel caso del ricercatore italiano Giulio Regeni, ucciso e torturato dalle forze di polizia egiziane tra gennaio e febbraio e di cui si sa ancora poco.

Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, «non è stato fatto alcun passo avanti da parte delle autorità giudiziarie egiziane e non è stato fatto alcun particolare passo avanti da parte dell’Italia, che pure aveva annunciato misure graduali e progressive nel caso in cui questa assenza di collaborazione fosse proseguita».

Siamo a un punto morto con le indagini?

«Direi proprio di sì, e questo preoccupa perché più passa il tempo e più si rischia di potersi abituare all’idea che la verità non arriverà. Questo caso potrebbe entrare nell’elenco dei casi irrisolti che purtroppo noi in Italia conosciamo bene, da Ilaria Alpi ad altri più recenti. L’Italia deve fare di più e pretendere in tutti i modi, usando tutte le leve politiche a sua disposizione, che l’Egitto fornisca tutte le informazioni che ci occorrono per ricostruire un quadro completo di quello che è accaduto a Giulio, che per il momento è un quadro che noi sospettiamo coinvolgere pesantemente le istituzioni egiziane».

L’altro sospetto, documentato nel rapporto pubblicato da Amnesty International, è che il caso Regeni non sia un caso isolato. Le sparizioni sono diventate sistema?

«Esatto, è un vero e proprio sistema repressivo che in nome della lotta al terrorismo produce sparizioni più che quotidianamente: secondo le organizzazioni locali per i diritti umani la media è di tre o quattro sparizioni al giorno, e come ricordano bene coloro che hanno una memoria lunga e ricordano le dittature sudamericane degli anni Settanta e Ottanta, le sparizioni non portano con sé solo l’angoscia dei familiari, ma anche la tortura degli scomparsi, che passano settimane o mesi in condizioni di isolamento completo, senza avvocati né contatti con le famiglie, senza essere portati davanti a un giudice, e quando questo accade il magistrato non fa altro che accettare come data di arresto una data che nega tutto il periodo precedente di sparizione, formalizza le accuse e le prove usate contro gli imputati sono esattamente le prove estorte con la tortura durante la sparizione. Inoltre è come se questo sistema fosse qualcosa di normale».

Un altro aspetto che sta diventando normale è quello di parlare spesso solo di numeri quando si raccontano sistemi di questo genere. Non c’è il rischio di dimenticarsi che dietro a ogni numero c’è una storia?

«È vero, però bisogna dire che i numeri servono, perché hanno la forza di descrivere in maniera evidente ciò di cui si sta parlando. Secondo le organizzazioni egiziane per i diritti umani nel periodo compreso tra il gennaio del 2015 e il maggio del 2016 siamo arrivati a quasi 2.500 sparizioni forzate e, per quanto riguarda le torture, almeno a a 1.170 casi documentati, di cui purtroppo quasi la metà con esito mortale.

Tuttavia, è importante non dimenticare le storie individuali che ci sono dietro. Per quanto riguarda gli scomparsi si tratta quasi sempre di uomini tra i 14 e i 50 anni, quindi la prima cosa che dobbiamo rilevare è che ci sono anche dei minorenni.

Per esempio va ricordata la storia di Mazen Mohamed Abdallah, che aveva 14 anni quando è scomparso: per estorcergli una confessione di appartenenza a un gruppo fuorilegge è stato violentato più volte con un bastone di legno. Un altro quattordicenne, Aser Mohamed, scomparso nel gennaio 2016, tra l’altro nello stesso periodo in cui scompariva Giulio Regeni, è stato picchiato, colpito con scariche elettriche su tutto il corpo e sospeso al soffitto, il tutto per 34 giorni. Anche in questo caso la confessione è stata estorta con la tortura, è andato a processo e con quella prova estorta con la tortura, che equivale a una confessione, ora è quasi certo di essere condannato».

C’è stata qualche reazione al rapporto di Amnesty International?

«Una sola, paradossalmente da parte del governo egiziano. Naturalmente ha reagito a suo modo, negando i contenuti del rapporto e accusandoci di faziosità politica, come se Amnesty International fosse al servizio di qualche agenda politica egiziana o internazionale, usando un tono e argomentazioni infondate che si fanno come se si stesse commentando un post online, ma che arrivano da un governo che dovrebbe rispondere in maniere corretta e circostanziata a delle precise accuse, e che nega l’esistenza delle sparizioni forzate.

Non abbiamo altre reazioni a parte questa, ma lo comprendiamo, perché ormai la tendenza, anche da parte italiana, è quella di isolare casi specifici, come magari quelli di alcuni avvocati egiziani per i diritti umani. Ricordiamo per esempio che il nostro ministro degli Esteri ha affermato che occuparsi del caso Regeni è una questione di dignità nazionale, come se stessimo sventolando una bandiera. Qui siamo dentro a un sistema di violazione dei diritti umani, e ignorarlo o isolare singoli casi per interesse nazionale fa il gioco delle autorità egiziane che tendono di volta in volta a dire che si tratta di casi isolati, la stessa cosa che, nei fatti, stanno dicendo le cancellerie occidentali con il loro comportamento».

Com’è possibile farsi portatori di certi valori se poi si è disposti a lasciar correre su un sistema che viene alla luce in modo così evidente?

«Questa è l’ipocrisia che domina la comunità internazionale, lo vediamo da ogni punto di vista. Quando si parla di diritti umani in un Paese, ma a quel Paese si continuano a mandare armi, come nel caso dello Yemen, oppure quando si piangono i morti che quotidianamente ci sono in Europa e non solo e poi si continuano a fare scelte di politica estera irresponsabili non si fa altroche trasformare il mondo in una fabbrica di rancore che poi ci piomba addosso e ci fa male. Il giorno dopo la strage di Nizza leggevo tra i commenti qualcuno che diceva “è finito il tempo dei gessetti e delle fiaccole”. Ecco, se invece usassimo più gessetti per colorare e più fiaccole per protestare silenziosamente invece di armare i Paesi o andare in guerra, magari quella fabbrica di rancore potrebbe chiudere».

Immagine: via flickr.com, autore Alisdare Hickson