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Acque agitate nel Mar cinese meridionale

Martedì 12 luglio il Tribunale internazionale dell’Aja si è espresso sulla disputa per il controllo di alcune piccole isole nel Mar cinese meridionale, una vertenza che si era aperta nel 2013 con l’esposto delle Filippine nei confronti della Cina. La corte ha dato ragione alle Filippine, sostenendo che «non ci sono elementi per sostenere che la Cina abbia storicamente esercitato un controllo di tipo esclusivo sulle acque o sulle risorse del Mar cinese meridionale». La questione, apparentemente marginale, riveste invece grande importanza a livello regionale perché dalla giurisdizione delle isole dipende anche il controllo delle acque secondo la cosiddetta “linea dei nove punti”, concepita addirittura prima della Rivoluzione cinese, e che copre quasi il 90% di un mare su cui si affacciano anche numerose nazioni vicine.

Secondo Gabriele Battaglia, direttore di China Files, agenzia editoriale in lingua italiana e inglese attiva in Cina, «la decisione della Corte ha un valore più simbolico che pratico».

Perché quella zona è così ambita?

«Ci sono diversi pareri: per alcuni è una questione di giacimenti sommersi di gas e petrolio, per altri al centro ci sono i banchi di pesca, per altri ancora sono invece le rotte strategiche il motivo principale dell’interesse cinese. In realtà è un insieme di tutto questo, con una prevalenza per le rotte, perché lì c’è lo stretto di Malacca e da lì passano tutte le materie prime e le merci che dal Medio oriente vanno in Estremo oriente. Chi controlla quegli stretti e quelle acque, ha una posizione di vantaggio. C’è poi da aggiungere una ragione strategica tipicamente cinese che è quella di tenere gli americani a distanza. Molti dirimpettai della Cina, come le Filippine, sono alleati degli Stati Uniti e Pechino non è intenzionata ad avere gli americani alle porte di casa. Proprio per questo ci si è inventati questa “linea dei nove tratti” che i vietnamiti chiamano “linea della lingua di mucca” perché come una lingua lambisce le coste di tutti gli altri Paesi».

Su quali “ragioni storiche” ci si basa da parte cinese?

«Su ragioni che sono difficilmente sostenibili, e poi su un’interpretazione di quello che sarebbero queste isole, che in realtà sono al massimo scogli e secche. In sintesi, la Cina sostiene che le Spratly, le Paracels e altri atolli che si trovano vicino alle coste degli altri Paesi sono storicamente cinesi perché sono sempre state occupate da pescatori cinesi. Da lì, da quelle terre, Pechino chiede di cominciare a contare le 12 miglia tradizionali di acque territoriali.

La sentenza dell’Aja dice invece che questi scogli e queste secche, tra cui alcune che stanno sotto il livello del mare quando la marea si alza, non possono essere considerate isole, e quindi non possono essere il punto da cui far partire il limite delle acque territoriali».

Com’è stata presa la sentenza da Pechino?

«Male. L’esposto delle Filippine è stato fatto nel 2013. Da subito la Cina ha rifiutato l’arbitrato e poi ha presentato tutta una documentazione per cui considera la Corte di arbitrato dell’Aja non competente. Secondo la Cina, infatti, la Corte non va riconosciuta perché non è un organismo delle Nazioni Unite. In effetti, il tribunale dell’Aja è una corte fondata nel 1899 ed era un insieme di istituzioni nazionali federate per creare questo organismo che aiuta a dirimere le controversie internazionali. La Cina l’aveva riconosciuto come istituto in sé, ma il cavillo a cui si appiglia oggi per dire che questo verdetto non è ricevibile è proprio il fatto che secondo loro la Corte non può esprimersi su questioni che riguardano la sovranità.
Tuttavia, la stessa Corte si è invece autogiudicata competente in materia e quindi si sapeva già prima ancora che ci fosse la sentenza che la Cina non avrebbe accettato questo verdetto».

Che cosa può fare ora la Cina?

«Il problema è politico e di immagine, perché dal punto di vista giuridico c’è condivisione anche tra gli osservatori nel dire che la corte è competente, ma che tuttavia non ha la possibilità di imporre sanzioni o di imporre il suo verdetto. A questo punto Pechino un po’ bloccata, perché rifiutando la sentenza rischia di perdere la faccia rispetto ai Paesi vicini. È un concetto molto importante in Cina, e in Oriente in generale, su cui si basa tutta la reputazione e quindi anche l’autorevolezza di qualcuno. Pechino ha sempre cercato di porsi come la nuova potenza regionale, quella che garantisce sviluppo, benessere e anche tranquillità a tutta quell’area di mondo, e invece non accettando questo verdetto è come se lanciasse il messaggio di potenza inaffidabile».

Quindi potrebbe accettare la decisione della corte dell’Aja?

«È difficile anche in questo caso, perché rischia comunque di perdere la faccia, perché rinuncia a quello che sostiene da sempre e soprattutto rinuncia a quello che ha sostenuto in patria. Non dimentichiamo che negli ultimi anni, a fronte del crollo della “narrazione maoista” e del vuoto anche morale creato dal boom del capitalismo di mercato, la Cina ha cercato di colmare quel vuoto facendo leva su quello che loro chiamano patriottismo, ma che di fatto assume spesso i tratti di un forte nazionalismo. Ecco, in questo caso dovrebbe ammettere davanti ai suoi stessi cittadini, caricati di propaganda sulle rivendicazioni territoriali e sulla patria, di essersi sbagliata, e questo non è tollerabile».

La questione è così sentita anche a livello popolare e non solo di vertici?

«Assolutamente sì, tant’è che negli ultimi giorni le reazioni più violente sono venute dal basso, sono corse sui social media, dove centinaia di migliaia di persone hanno invocato una guerra contro le Filippine, che loro chiamano “venditori di banane”, per far loro capire chi comanda nell’area. A quel punto la censura è intervenuta in senso contrario rispetto a quello che di solito pensiamo, per censurare soprattutto i messaggi più aggressivi e nazionalisti. La linea è quella che detta il governo, non quella che viene dal basso, e si è cercato di far passare il messaggio di stare calmi perché la situazione è sotto controllo. Per capire quant’è forte il sentimento nazionalista legato al Mar Cinese Meridionale basta vedere le vignette, le immagini e anche i video che circolano in rete sui social media cinesi, oppure andare a vedere cosa ha fatto una banca di Shanghai il giorno del verdetto: il 12 luglio è uscita con una carta di credito ad hoc per i suoi clienti che è la carta di credito del Mar Cinese Meridionale, sulla quale si poteva leggere uno slogan che recitava più o meno “se il popolo cinese ha diritto a un luogo, noi abbiamo la carta di credito che rappresenta questo sogno”. Insomma, è un nazionalismo abbastanza diffuso che poi, molto “alla cinese”, viene anche utilizzato per fare affari».

Nell’immediato cosa ci dobbiamo attendere?

«Credo che la scelta sarà una non-scelta, come sempre succede in questi casi soprattutto in quella parte di mondo. A volte in Asia la non-soluzione è una soluzione, tant’è vero che il viceministro degli esteri cinese nel contestare la sentenza dell’Aja ha detto “cosa sanno loro della cultura asiatica?”. Non è una frase detta a caso, ma fa capire molte cose. Pechino, un secondo dopo una sentenza che si aspettavano tutti, nel ribadire la propria sovranità ha immediatamente “rilanciato la carota” ai filippini dicendo di essere aperti a discussioni bilaterali. Questo significa che la Cina si concepisce come la superpotenza di quell’area, come se fosse una specie di impero benigno che vuole portare il benessere in tutta quell’area e che basa le sue relazioni su rapporti bilaterali, un po’ come al tempo degli stati tributari nei confronti dell’impero cinese vero e proprio. Di fatto erano tutti stati indipendenti, che sfuggivano dal controllo di Pechino, però a livello anche simbolico ogni tanto mandavano dei regali all’imperatore per sancire una superiorità della Cina come civiltà e come cultura. Credo che la Cina, in maniera riveduta e corretta, abbia in mente una situazione di questo tipo, rivendicando la propria esclusiva competenza su questa area di mondo e respingendo le ingerenze statunitensi, considerate una minaccia per la sicurezza della regione. Il problema è che gli altri Paesi, abbastanza giustamente, non si fidano della potenza cinese, e sul rapporto di fiducia ci si gioca molto».

Immagine: via flickr.com