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La debolezza del Bangladesh

In nome di Dio, in Bangladesh il sangue continua a scorrere. Nel distretto di Kishoreganj, a un centinaio di chilometri a nord di Daqqa, ieri mattina un commando armato di sei-sette giovani ha attaccato uno dei più grandi raduni religiosi del paese, il Sholakia Eid, cui ogni anno partecipano centinaia di migliaia di fedeli per celebrare la fine del Ramadan. Al termine del conflitto a fuoco con la polizia, il bilancio è di una decina di feriti e di quattro vittime: 2 poliziotti, una donna, e uno degli attentatori (il resto del gruppo è stato arrestato). A meno di una settimana dai fatti di Daqqa, l’attacco, indirizzato, a quanto sembra, più alla forze dell’ordine che al raduno di fedeli, conferma lo stato di debolezza di un paese economicamente instabile e dilaniato da lotte intestine. 

Secondo il quotidiano francese «Libération», nel paese sarebbe attualmente in corso una sorta di «guerra civile» non dichiarata. Il conflitto risalirebbe ai primi mesi del 2013, quando nel corso di una manifestazione di parte «laica» indetta contro i crimini umanitari commessi dai gruppi islamisti nel corso del conflitto che nel 1971 condusse il Bangladesh all’indipendenza dal Pakistan, i manifestanti scesi nelle piazze di Daqqa si spinsero a chiedere al governo la messa al bando della Jamaat-e-Islami, il partito islamista più influente del paese. La «reazione religiosa» non si fece attendere, e già tre anni or sono sfociò nella violenza: alla testa di migliaia di studenti delle madrase islamiche, il gruppo radicale Hefazat-e-Islam scese a sua volta in strada per dichiarare morte agli «atei». Risale a poco tempo dopo l’assassinio del primo blogger e l’inizio della persecuzione di scrittori, attivisti e liberi pensatori bengalesi da parte dei diversi gruppi islamici radicali, gruppi che in Bangladesh sembrano competere tra di loro. Secondo «L’OBS», un altro giornale francese, sarebbe questa dinamica di «macabra concorrenza» tra affiliati ad Al-Qaïda e nuove reclute-web dello Stato islamico alla base dell’escalation delle violenze che solo una settimana fa la carneficina nel ristorante di Daqqa ha portato all’attenzione dei nostri media nazionali – fatta eccezione per Nassiriya nel 2003, mai tanti italiani avevano perso la vita in un attacco terroristico.

Con quasi 170 milioni di abitanti, il Bangladesh è tra i paesi più densamente popolati del mondo, ma a un elevato tasso di povertà si aggiungono i limiti di un sistema democratico sviluppatosi a fasi alterne a partire dai primi anni Novanta. La Costituzione istituisce l’Islam come religione di Stato – circa il 90% dei bengalesi è di religione musulmana sunnita – tuttavia, con la riserva dell’ordine pubblico, prevede il diritto di pratica di altre fedi. Il governo attuale, guidato dalla Lega Awami (il Partito Popolare bengalese tradizionalmente laico e di centro-sinistra) attribuisce l’ascesa del terrorismo ai tentativi destabilizzatori delle opposizioni (il Partito nazionalista del Bangladesh ed i suoi alleati nel mondo islamico radicale, tra cui la Jamaat-e-Islami); tuttavia non sembra possedere gli strumenti adeguati per contrastare quest’ondata di omicidi su base religiosa d’intellettuali, stranieri e membri di minoranze di fede, che in tre anni ha fatto più di 50 morti.

Dopo gli ultimi attentati a Kishoreganj, Brad Adams, direttore per l’Asia di Human Rights Watch, ha dichiarato: «Dopo aver risposto in maniera lenta e compiacente a questi attacchi terrificanti, piuttosto che lavorare duramente e condurre inchieste affidabili le forze di sicurezza torneranno alla loro vecchia pratica di arresto dei “soliti noti”».