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Gaza è sempre più isolata

Ci sono anniversari che in molti vorrebbero non dover mai celebrare. Tra questi, sicuramente quelli dell’inizio di un conflitto come quello che dieci anni fa colpì la Striscia di Gaza, quella piccola area di terra compresa tra l’Egitto a sud, il Mediterraneo a ovest e Israele a est e a nord. Il 28 giugno 2006, infatti, le truppe di terra dell’esercito israeliano entrarono a Gaza per la prima volta dopo il disimpegno unilaterale deciso dal primo ministro Ariel Sharon l’anno prima.

Quella dell’inizio ufficiale dell’offensiva è una data dal grande valore simbolico, ma l’operazione “Piogge estive” non può essere ritenuta un fulmine a ciel sereno, vista l’alta tensione che segnò tutto il periodo compreso tra il disimpegno dell’estate precedente e l’attacco di dieci anni fa. Tra gli episodi centrali di una costante corsa verso un inevitabile conflitto non vanno dimenticati i lanci di razzi Qassam dalla Striscia di Gaza verso Israele, oppure la cosiddetta “strage della spiaggia di Gaza”, che vide la morte di dieci civili palestinesi il 9 giugno 2006 per mano israeliana.

L’operazione, in realtà, era nata con lo scopo di liberare il caporale Gilad Shalit, rapito da un commando palestinese tre giorni prima vicino al confine con la Striscia, ma tutto fa pensare che quello non fosse che l’ultimo capitolo di una corsa verso un conflitto, alimentato dalla distanza tra israeliani e palestinesi e dalla rottura interna alla politica palestinese, divisa in due dalle elezioni del gennaio 2006, vinte dal gruppo nazionalista Hamas e contestate da tutti, che con un po’ di volontà e impegno internazionale si sarebbe potuto evitare.

«È importante parlare di Gaza non soltanto quando viene attaccata, e quell’operazione segnò un punto di svolta», racconta Cecilia Dalla Negra, vicedirettrice della rivista indipendente Osservatorio Iraq, che insieme a Christian Elia di Q Code Magazine ha curato un dossier dedicato a questi dieci, difficili, anni.

Perché il 28 giugno 2006 è una data chiave per Gaza?

«Perché è la fine di un’illusione. Il Piano di disimpegno unilaterale israeliano voluto dall’allora primo ministro Ariel Sharon era stato avviato durante l’estate precedente, quella del 2005, ed era stato presentato dallo stesso Sharon come un grande gesto di apertura e di pace nei confronti dei Palestinesi. In effetti gran parte dei commentatori e dei politici internazionali avevano condiviso questa lettura, però chi aveva vissuto in quella regione e l’aveva studiata a fondo nutriva diversi dubbi, perché temeva che si potesse trattare di un’occasione per eliminare ciò che c’era di residuo di presenza israeliana nella Striscia di Gaza e poter poi rendere il territorio quella grande prigione a cielo aperto che in effetti è diventata. L’operazione Pioggia Estiva sarà soltanto la prima di una lunghissima serie di offensive su Gaza che produrranno nel corso di questi dieci anni un numero altissimo di vittime civili».

Il 2006 fu un anno importante per tutto il Medio Oriente, perché cominciò con la vittoria di Hamas nelle elezioni legislative palestinesi di gennaio e continuò con l’offensiva su Gaza e con la guerra in Libano. Ha segnato una svolta anche nei rapporti tra Israele e Palestina?

«Senza ombra di dubbio: il 2006 è un anno fondamentale. La vittoria di Hamas, per esempio, non venne riconosciuta dal governo israeliano e anche la posizione della comunità internazionale nei confronti della Striscia di Gaza cambiò in modo notevole. Quello che però conta maggiormente è che in questo decennio, dal 2006 a oggi, in ambito palestinese ci sono state più vittime civili di quanto non sia accaduto nei vent’anni precedenti, quelli insomma di occupazione diretta.

Il 2006 segna quindi un cambio di passo e in contemporanea un progressivo disinteresse da parte internazionale: se l’operazione Piogge Estive che fece oltre 400 vittime civili provocò un impegno abbastanza unanime da parte della società civile internazionale, nel corso degli anni abbiamo visto sempre meno reazioni, anche se dobbiamo pensare che l’operazione Piombo Fuso del 2009 causò tra le 600 e le 1.300 vittime civili e Margine di protezione nel 2014 addirittura tra gli 800 e i 1.700. Purtroppo sembra che ci si sia abituati a questa violenza, al punto che oggi, dieci anni dopo, Gaza non fa più notizia».

Questi dieci anni come hanno cambiato la vita all’interno della Striscia?

«Quella prima operazione provocò la distruzione dell’aeroporto e quindi di uno degli ultimi luoghi di fuga possibili rimasti. Negli anni purtroppo la situazione si è deteriorata, perché il territorio di Gaza è completamente sigillato, dalla terra, dal cielo e dal mare, è a tutti gli effetti un carcere a cielo aperto nel quale vive un milione e mezzo di persone ridotte alla fame e alla sete, è un cumulo di macerie. Oltretutto offensive come quella del 2006 non hanno fatto altro che continuare a distruggere le infrastrutture che piano piano venivano ricostruite anche grazie ai fondi della Comunità Europea e delle organizzazioni internazionali. Gaza paga il prezzo anche dei cambiamenti regionali che ci sono stati in questi anni: abbiamo assistito alle rivoluzioni arabe, a diversi regime change in Egitto e il valico di Rafah ne ha pagato il prezzo. Se, immediatamente dopo la rivoluzione del 2011 in Egitto, c’era stata una timida apertura di quel valico in parte controllato dall’Egitto, oggi con le nuove politiche di al-Sisi e con una politica regionale che ha preso un’altra direzione, Gaza oltre che sigillata è anche completamente abbandonata a se stessa».

Quali sono le prospettive?

«Sono molto pessimista, perché parte di questa responsabilità ce l’ha anche la leadership palestinese dei territori occupati, della West Bank, che di fatto sembra stia dimenticando Gaza come in passato aveva dimenticato e messo da parte la questione del diritto al ritorno dei tanti profughi che sono stati costretti a lasciare la Palestina nei decenni precedenti e non hanno mai più potuto fare ritorno. Ormai esiste uno status quo con due entità separate e due governi alquanto illegittimi, perché non ci sono elezioni da moltissimi anni nei due territori, e l’impressione è che anche dal punto di vista della leadership palestinese ci si sia adagiati su questa situazione, che vede Hamas controllare la Striscia e Fatah insieme all’Anp governare la Cisgiordania. Inoltre, dal punto di vista interno Hamas non se la sta passando bene, c’è un crescente malcontento e un cambio al vertice atteso da molto e che tarda a concretizzarsi. Onestamente pensare che la soluzione possa arrivare soltanto dall’interno mi sembra poco credibile. Il segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, di recente ha ribadito che ciò che viene fatto ai palestinesi di Gaza è una forma di punizione collettiva. Ecco, sarebbe il caso di dare un seguito a quelle parole e cominciare a far pagare ai responsabili il prezzo della sofferenza che la popolazione di Gaza subisce ogni giorno. Sarebbe il primo passo per stabilire finalmente un nuovo ordine delle cose e fare in modo che le parole non rimangano soltanto parole».

Immagine: By Marius Arnesen – Flickr: Bombed house Gaza, CC BY-SA 3.0 no, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11106760