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Armenia, il respiro antico delle pietre

All’antica chiesa di Goshavank manca il tetto e l’energia elettrica, ma il giovane parroco – arrivato da poche settimane in questo povero villaggio dell’Armenia rurale – non sembra preoccupato per le questioni logistiche. Hayr (padre) Ter Setrak è accigliato, piuttosto, per le pressanti questioni pastorali che lo aspettano: «La gran parte degli adulti qui – dice – non sono battezzati e dunque non possono partecipare alla consacrazione eucaristica. Così, durante la divina liturgia, al termine della lettura della Parola, devono uscire dal tempio. Insomma, mi attende un lungo lavoro di catechesi per far riavvicinare alla fede così tante persone, nate e cresciute ai tempi del regime sovietico. Fortuna che non sono da solo, ma posso contare sull’aiuto di mia moglie!».

Il paradosso della Repubblica dell’Armenia è tutto in questo quadretto familiare: il Paese che per primo nella storia fece del cristianesimo la propria religione di Stato è una nazione profondamente cristiana e, insieme, molto poco credente. Incastrata tra Caucaso e Medio Oriente, a metà strada tra le steppe dell’Asia centrale e le sponde del Mediterraneo, è la terra del “popolo dell’arca”, la stirpe che si vuole discendente di Noè e dei suoi figli, approdati qui sul monte Ararat dopo il diluvio. Un popolo che di diluvi, reali e metaforici, se ne intende parecchio: nel corso della sua lunga storia ha vissuto esodi e persecuzioni politico-religiose a non finire, da quelle dovute al rifiuto delle conclusioni del Concilio di Calcedonia del 451, che la separò dal resto dell’Ecumene cristiana, fino all’infinita tragedia del “Medz Yeghern”, il genocidio subito per mano dei Giovani Turchi che portò all’eliminazione fisica di un milione e mezzo di uomini, donne e bambini nell’arco di due anni, dal 1915 al 1916.

In questa terra antica e martoriata sta per arrivare papa Francesco, per una visita apostolica dal 24 al 26 giugno che mostra interessanti risvolti politici ed ecumenici. Il Paese è di fatto ancora in guerra con l’Azerbaigian per il controllo del territorio del Nagorno-Kharabakh, popolato totalmente da armeni ma situato all’interno dei confini azeri. E se la frontiera orientale con l’Azerbaigian è blindata per via del conflitto, quella occidentale con la Turchia è chiusa a mandata doppia, dato l’ostinato rifiuto del governo di Ankara di ammettere le proprie responsabilità nel “Grande Male” del genocidio del 1915. E se questo non bastasse, si può aggiungere l’infinita tragedia che si svolge al di là del confine meridionale, quello con la Siria, da cui continua a giungere un fiume di profughi in cerca di una via di scampo al carnaio scatenato dal collasso del regime di Damasco. Da questo punto di vista, la presenza di Bergoglio a Yerevan vuole essere un segno di vicinanza nei confronti di una minoranza cristiana lungamente oppressa e, insieme, una esplicita intercessione di pace per una regione che da anni ormai non conosce altro che scontri e lutti.

Non meno rilevante, però, è l’aspetto religioso. Certo, non si tratta di una rilevanza, per così dire, “numerico-quantitativa”: gli armeni sono – sì e no – 10 milioni su tutto il pianeta. Eppure questa minuscola Chiesa pre-calcedonese, che celebra le sue liturgie in armeno classico, scrive le sue accorate preghiere in un alfabeto arcaico e fa indossare ai suoi sacerdoti delle curiose pantofole ricamate per calcare santamente l’altare durante il servizio divino, ha una speciale lezione da consegnare a tutta l’Ecumene cristiana, specialmente quella occidentale. Di fronte alla preoccupazione per il futuro che permea (giustamente) le nostre comunità e che ci spinge a porci continuamente il tema dall’aggiornamento, dell’evoluzione e della riforma, la piccola periferica Armenia cristiana ci insegna ad ascoltare il respiro antico delle pietre. Qui, su ogni sasso è scolpita una croce, su ogni muro è disegnato un itinerario spirituale, in ogni chiesa – anche la più diroccata – si ode l’eco del divino. In queste valli impervie, la devozione per il passato non ha nulla di museale: la storia delle generazioni che, nel tempo, hanno tramandato la fede fino a oggi non è imbalsamata, ma respira viva, si agita impetuosa, anima il presente. In tempi come i nostri di sconsiderate amnesie e di modernismi superficiali, un tale delicato amore per l’eredità di chi ha sofferto e creduto prima di noi è un prezioso patrimonio da investire nella costruzione del domani.

Immagine: via pixabay.com