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L’identità travagliata di Ponticelli

Il duplice omicidio dei giorni scorsi nel quartiere di Ponticelli, a Napoli ha riportato al centro del dibattito pubblico il tema della violenza nelle periferie della città partenopea. Le vittime sono un uomo di 25 anni, elemento di spicco del clan Barbudos, e un 19enne incensurato: «siamo a 300 metri da dove è successo il fatto – dice Salvatore Cortini, direttore del centro metodista “Casa Mia Nitti”, che si trova nel cuore del quartiere – in un rione realizzato nella ricostruzione post terremoto del 1980, dove non c’è niente, solo una parrocchia e una scuola. C’è povertà di iniziative e alternative per i giovani. Gli omicidi sono avvenuti in una sala per ragazzi, dove i giovani si riuniscono per giocare a biliardino o a carte. Sono stato sul luogo del delitto e notavo che oltre al sigillo messo dalle autorità, il resto continuava nella normalità».

Raccontare un luogo dove sono avvenute violenze non è facile, poiché si rischia di contribuire ad etichettarlo soltanto come tale e perdere la complessità della situazione, sebbene questo non giustifichi l’aggressione ai giornalisti avvenuta nel quartiere successivamente all’omicidio, come scriveva qualche giorno fa Articolo 21. «Le reazioni che ci sono state nei confronti dei giornalisti sono un fatto estremamente grave. Non è la prima volta che succede, poiché non si vuole che si marchino e mortifichino questi luoghi» dice Cortini.

Un rifiuto delle etichette che spesso danno i media?

«Questi rioni sono da sempre all’attenzione della cronaca nera, non sono stati mai messi in luce per le altre cose. La reazione è partita dagli abitanti del quartiere, poiché spesso viene rimarcato con pesantezza come luogo diffamato e dove accadono solo fatti di camorra. È una realtà dove mancano le alternative: la disoccupazione è più alta, il numero di giovani che abbandonano la scuola è più elevato che in altre parti della città. Quando si lascia la scuola e non c’è lavoro, facilmente si cade nella trappola dei gruppi malavitosi».

La parola chiave è dunque “alternativa”. Su questo tema le chiese come si inseriscono?

«C’è una rete di associazioni laiche e religiose che intervengono in diversi quartieri della città. L’obiettivo è ridurre il danno sociale e culturale provocato dalla malavita, perché il problema è troppo grande. Ma si lavora sulla legalità, punto importante e urgente da affermare in un quartiere che vive senza legge, con il quale si fa fatica a convivere. Proponiamo opportunità, attraverso luoghi di accoglienza e solidarietà, dove si possono sperimentare l’amicizia, la relazione, l’ascolto l’uno per l’altro. Un lavoro difficile. Sono 18 i morti nell’interland cittadino dall’inizio dell’anno: un’emergenza senza mobilitazioni da parte delle istituzioni».

Le mafie sono più potenti quando non hanno bisogno di uccidere. Che ne pensa?

«Dopo lo smantellamento dei grossi clan c’è un ricambio generazionale, fatto da gruppi che vengono comandati da ragazzi giovanissimi, con una violenza spietata. Intimidiscono e uccidono senza guardare in faccia nessuno e comandano spesso truppe di minorenni. Si pensi alla “stesa”: si spara in una strada del quartiere e tutti si devono stendere per terra. Un atto dimostrativo per far capire chi comanda e le conseguenze per chi si ribella. Il nostro impegno va nella direzione di ridurre il danno, ma è un’azione molto difficile. Anche le chiese del napoletano sono impegnate, rispondere alle emergenze culturali e sociali, avremmo bisogno di impegnarci ancora di più».

Foto: Radio Beckwith