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Curare anime sospese

Uno stanzino semplice in cui domina il bianco, tre poltroncine Ikea, un tavolo, una macchinetta del caffè e una grande fotografia appesa alla parete sulla quale si vede in primo piano un ponte di corda malamente teso sopra un torrente, con dall’altra parte della sponda un rigoglioso bosco verde: è quanto accoglie il richiedente asilo che chiede un incontro con il pastore Marcel Cavallo, cappellano per la chiesa riformata del Canton Zurigo nel primo Centro federale sperimentale per richiedenti asilo della Svizzera.

Il Centro, il cosiddetto Juch, situato nella periferia del quartiere industriale della città – 5 lunghe baracche di legno, numerate, circondate da una rete alta 2 metri, dove fino agli anni ’80 vivevano stipati gli stagionali italiani – è stato istituito un paio d’anni fa per mettere alla prova il funzionamento della «procedura accelerata» di richiesta d’asilo appena introdotta grazie all’accettazione da parte del popolo elvetico della «Riforma sull’asilo» lo scorso 5 giugno.

Esprime grande soddisfazione per l’esito della consultazione popolare, il pastore Cavallo, che in questi anni ha toccato con mano i benefici di tale procedura, che non deve superare i 140 giorni e che obbliga le autorità competenti ad usare chiarezza con il richiedente asilo rispetto ai suoi diritti, tra cui anche quello di essere rimpatriato gratuitamente con in tasca 1000 franchi. In caso contrario, gli va garantita un’assistenza legale e medica gratuita. Ad oggi, nello Juch, che ha una capienza di 300 posti per uomini, donne, bambini e minori non accompagnati, sono stati elaborati più di 3000 casi.

Fino all’esito del procedimento i richiedenti asilo sono ospitati in un regime di semi-libertà. E aspettano. Certo, numerose sono le attività proposte nel Centro, tra cui naturalmente corsi di tedesco, e c’è anche chi per pochi franchi si presta a lavoretti socialmente utili, ma ciò non toglie che la condizione degli ospiti è quella di chi è sospeso in un limbo, tra un prima e un dopo.

Niente forze dell’ordine, nemmeno un poliziotto, ma quaranta operatori che a turno assistono 24 ore su 24 gli ospiti del Centro, grandi e piccini. Di quest’equipe fa parte anche il pastore Cavallo che si alterna con il suo collega cattolico. «Certo, manca un imam – dice il cappellano che da mesi chiede alle autorità competenti l’inserimento nel team di una figura che possa offrire ai musulmani l’assistenza spirituale cui avrebbero diritto -. Naturalmente capita che mi chiedano di pregare con loro. E allora preghiamo insieme, consapevoli del fatto che tra religioni abramitiche preghiamo lo stesso Dio. Ora che è passata la riforma sull’asilo, spero che la situazione si sblocchi e che potremo avere presto un collega islamico», aggiunge il pastore Cavallo, che per il Ramadan ha fatto sistemare una stanza di preghiere ad hoc.

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Foto: ADF

«Come curatori d’anime io e il mio collega cattolico ci siamo dovuti conquistare piano piano gli spazi… all’inizio le conversazioni con i bisognosi di assistenza spirituale si svolgevano sulle panchine nel cortile tra una baracca e l’altra. Finalmente si è realizzata la mia idea del polo interprofessionale: quella cioè di avere nel Centro una vera e propria unità di servizi, con la consulenza legale e il presidio sanitario a fianco alla stanza adibita ai cappellani». In un’ala della «Haus 1», accanto al punto internet con una ventina di computer a disposizione degli ospiti, da poco sono stati allestiti dei veri e propri uffici, dove lavorano fianco a fianco i cappellani, gli avvocati e i medici. «Questo ci permette di avere un migliore scambio tra le varie figure professionali a grande beneficio dei richiedenti asilo. Una “buona pratica”, che potrà essere riproposta nei nuovi Centri federali che in seguito alla votazione di domenica scorsa sorgeranno da qui a poco in tutta la Svizzera». Ma quello che più manca, secondo Cavallo, è la possibilità per chi è uscito dal Centro e ricomincia come rifugiato una nuova esistenza, di poter mantenere una continuità con chi lo ha seguito e assistito anche spiritualmente già nel Centro stesso. «L’esito della consultazione popolare in realtà significa anche una sfida per le chiese: sarà necessario attrezzarsi, e sarà necessario farlo in fretta, dentro e fuori dai centri di prima accoglienza», dice il pastore.

La grande foto nel suo ufficio l’ha scelta di proposito. Gli permette di capire lo stato d’animo di chi gli si rivolge, spesso con l’aiuto di un traduttore o mediatore culturale: «Chi ha lasciato tutto, sia per motivi di guerra e persecuzione, sia per fame, è in una condizione di grande precarietà esistenziale, ma non sempre riesce ad esprimerla. Allora capita che diamo un’occhiata alla foto. E al mio interlocutore chiedo di dirmi dove, secondo lui, egli stesso si vede nell’immagine, e in quale direzione stia andando. Spesso aiuta per iniziare una conversazione senza in realtà dover spendere troppe parole».

In questi mesi, tra le tante cose che più lo hanno colpito, il pastore Cavallo annovera il fatto che le persone più traumatizzate non sono affatto coloro che sono reduci di atrocità causate da conflitti e persecuzioni. «Almeno loro arrivano sì distrutti e con alle spalle inaudibili sofferenze e perdite, ma con nel cuore un progetto: guardano al futuro, sono portatori di speranza – dice Cavallo -. Le persone in assoluto più traumatizzate sono quelle che da 8-10 anni si arrabattano in giro per l’Europa, che magari sono arrivati a Gibilterra in situazione di illegalità, hanno attraversato la Spagna, la Francia, la Germania, senza soluzione di continuità: sono coloro il cui progetto migratorio è fallito, che non nutrono più alcuna fiducia nelle istituzioni… non integrati, abbandonati dal sistema, sono anche coloro che non si sentono di tornare a casa, perché troppa è la vergogna che provano nei confronti dei propri famigliari, i quali avevano riposto in loro tutta la fiducia di questo mondo». Non sapremo in quale punto del ponte di corda si vedono queste persone. Su questo, il cappellano mantiene il riserbo.