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Il papa, le donne e il pastorato femminile nella chiesa valdese

In mezzo a questo nuovo gran fiorire di entusiastici elogi al papa che “apre alle donne”, bisogna prima di tutto dire esattamente le cose come stanno. Rispondendo a una domanda rivoltagli in occasione del recente grande incontro internazionale con 600 suore (superiore generali), Bergoglio ha detto sì alla proposta di istituire una commissione per riesaminare la questione del diaconato femminile. Ben venga la commissione, ben vengano le donne diacone.

Leggendo i primi commenti ho pensato che occorre evitare i due estremi: uno, che vede ormai prossimo l’ingresso a pieno titolo delle donne nella gerarchia della Chiesa di Roma (il diaconato è il primo grado dell’ordine sacro, seguito dal sacerdotale ed episcopale) e giudica “epocale” l’apertura del papa; l’altro, altrettanto sbrigativo, che minimizza, che ha subito da ridire perché si parla solo di diaconato e non di sacerdozio. Tra di noi non mancherà chi, con orgoglio valdese, ricorderà la presenza di donne predicatrici fin dal XII secolo nel movimento valdese.

Intanto non è vero che la chiesa cattolica sia l’ultima rimasta a rifiutare il sacerdozio alle donne; se nelle chiese anglicane o luterane ci sono donne vescove, tutto il mondo ortodosso è contrario al sacerdozio femminile e tanti evangelici fondamentalisti negli Usa, probabilmente molti di quelli che voteranno per Trump, di donne pastore non hanno alcun desiderio, come di coppie gay e di relative benedizioni.

Il “predicare liberamente” rivendicato da Valdo coinvolse uomini e donne (ma i Barba valdesi erano maschi). La Riforma ebbe altre priorità. Più che consentire anche alle suore di predicare, Lutero volle spalancare le porte dei conventi e far cadere la separazione tra il dentro e il fuori, tra la religione e il mondo.

Per la chiesa valdese, il punto di inizio del lungo percorso verso il pastorato femminile è il 1948, quando una apposita Commissione viene nominata dalla Tavola valdese (l’organo esecutivo del Sinodo). L’anno successivo la Commissione presenta due rapporti: uno sul pastorato, l’altro su un possibile “ministero ausiliare”.

«Riteniamo che non vi siano sufficienti ragioni – concludeva il primo rapporto – per continuare a escludere le donne di fede evangelica dal ministero pastorale nella sua pienezza». Il secondo testo indicava per le donne varie funzioni «esulanti dalla predicazione, dall’amministrazione dei sacramenti e dalla cura d’anime». Era prevista l’incompatibilità con il matrimonio non per una ragione di principio, ma per il timore che con la cura famigliare ci fosse meno tempo disponibile per la chiesa. Regola abolita nel 1959. Per la preparazione a questo ministero di “assistente di chiesa” fu istituito un corso apposito presso la Facoltà di teologia nel 1950, con tre studentesse che lo frequentarono, pur non sapendo ancora bene quale sarebbe stato il loro ruolo. Nel 1960 il Congresso della Federazione femminile chiese al Sinodo il riconoscimento del pastorato alle donne. Ma la decisione fu ancora rinviata e demandata alle chiese locali che fecero pervenire il loro parere: in genere favorevole, ma con molte perplessità di ordine pratico. Finalmente, il Sinodo del 1962 riconosce «alle sorelle che siano state chiamate la piena validità del ministero della Parola»; decisione comunque non facile, come dimostrano i numeri: favorevoli 57, contrari 42, astenuti 10. Nel 1967 viene consacrata la prima donna pastora; con l’integrazione fra le chiese metodiste e valdesi, nel 1979, il ministero pastorale viene aperto anche alle donne metodiste.

Alla metà degli anni ’80, circa vent’anni dopo, le donne pastore nelle chiese metodiste e valdesi erano circa il 10%, oggi sono triplicate. Nell’Unione delle chiese battiste ci sono donne pastore fin dai primi anni ’80 e nella chiesa evangelica luterana in Italia le donne pastore sono in servizio dagli anni ’90. Nell’ottobre 2004 fu eletta la prima pastora presidente del Comitato esecutivo dell ‘Unione delle chiese battiste e nell’agosto 2005 la prima pastora moderatora della Tavola valdese.

Il prossimo anno, 2017, sarà dunque non solo l’anniversario della Riforma, ma anche il cinquantenario dalla prima consacrazione di una donna al ministero pastorale nella chiesa valdese.

In questa prospettiva, la vera questione non è se le donne potranno far parte della gerarchia nella chiesa cattolica ma il fatto che la gerarchia, dal papa in giù, faccia le veci di Cristo, si ponga come la mediatrice fra Dio e l’umanità. A proposito del papa, è famosa una frase di Lutero: «un vicario non è necessario, basta avere dei ministri».

Mentre nel protestantesimo siamo abituati a pensare ai “doni dello Spirito” concessi a tutti e a ciascuno, riconosciuti dalla comunità, con l’aiuto della Parola, nel cattolicesimo è l’incarico ecclesiastico canonicamente conferito che garantisce la presenza dello Spirito. La chiesa antica, e anche la Riforma afferma: Ubi Christus ibi Ecclesia (dove c’è Cristo c’è la Chiesa). Nella teologia gerarchica, invece, «la Chiesa è dove c’è il vescovo (o Pietro)».

La vera frattura nella chiesa cristiana del XVI secolo sta qui. Nessuno può dominare lo Spirito che soffia dove vuole; nessuno dovrebbe impedire che anche le donne nella chiesa cattolica siano non solo diacone, ma sacerdote, vescove e papesse. E’ la scala gerarchica che, con i vari gradini, si innalza verso Dio che contrasta con la Parola.

Al contrario, è Dio che, in Cristo, diventando come noi, ci viene più che vicino. Non siamo noi che, attraverso la chiesa, andiamo più vicino a Dio.

Foto: Pietro Romeo