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Un piano per l’Africa

Nel discorso di fede, il continente africano occupa una posizione ambivalente: da un lato è triste testimone della manipolazione politica della religione, finalizzata ad azioni violente; dall’altro esso è la terra dove leader e operatori religiosi d’ogni credo e nazione esercitano nel quotidiano un’influenza positiva. È proprio questa duplice natura dell’Africa ad essere stata al centro di un incontro internazionale svoltosi martedì 10 maggio in Etiopia, ad Addis Abeba, dove più di 40 comunità religiose radicate in una ventina di Stati del continente hanno inviato i loro rappresentanti a discutere azioni pratiche per prevenire l’odio etnico e religioso.

Organizzata dallo United Nations Office on Genocide Prevention e dall’International Dialogue Centre, la Conferenza di Addis Abeba ha goduto altresì del patrocinio del Network for Religious and Traditional Peacemakers e del Consiglio ecumenico delle chiese (Cec).

Dando il benvenuto ai partecipanti, Adama Dieng, segretario generale dell’Onu per la prevenzione dei genocidi, ha dichiarato: «Sono profondamente convinta, e lo sono altrettanto le Nazioni Unite, che voi come attori e capi religiosi abbiate, nei confronti delle vostre comunità, un ruolo fondamentale nel prevenire l’incitamento alla violenza. Nella Repubblica Centrafricana così come in Costa d’Avorio, Nigeria, Ruanda, Sudan e Sud Sudan, l’incitamento alla violenza proveniente non soltanto da autorità statali ha condotto molte persone a macchiarsi di crimini atroci, incluso il genocidio. La religione è stata spesso utilizzata per giustificare l’attacco a una comunità: talvolta i capi religiosi hanno contribuito a diffondere questo sentimento d’odio, talaltra il loro silenzio è divenuto complice delle violenze».

Sulla stessa linea l’ambasciatore Alvaro Albacete, segretario generale del Kaiciid: «Abbiamo visto tutti gli effetti negativi della manipolazione delle identità religiose. Quindi è imperativo che lavoriamo assieme per evitare che si continui ad abusare della religione per promuovere la discriminazione, gli stereotipi e l’odio dell’“altro”».

A rappresentare il Cec in Etiopia c’era Peter Prove, direttore degli affari internazionali: «Riteniamo che sia nostro dovere passare al vaglio le nostre tradizioni per rinvenirvi possibili fonti di violenza, nello stesso momento in cui in quelle medesime tradizioni ricerchiamo quell’ispirazione alla pace che ci potrà insegnare a stare insieme. Il messaggio dei leader religiosi deve essere un messaggio di speranza: speranza per la pace, speranza per la giustizia, speranza per la comunità».

Trovandosi concordi sul fatto che fattori economici, sociali e politici possono contribuire alla manipolazione delle identità religiose, i partecipanti al summit di Addis Abeba hanno stilato una serie di misure concrete che i leader religiosi dovranno intraprendere per contrastare il fenomeno: misure quali la promozione di corsi di formazione per i capi religiosi locali; lo sviluppo di un sistema condiviso di allerta genocidio; la creazione di piattaforme di cooperazione e di lavoro tra diverse fedi coincidenti in un medesimo territorio; l’ascolto intergenerazionale volto a tutelare i giovani dall’odio religioso; il lavoro con i media e i social media per veicolare in maniera attraente messaggi alternativi; l’accettazione, l’aiuto e il reintegro in comunità di vittime di violenza sessuale.

Le raccomandazioni e le strategie emerse durante il dibattito andranno a formare un «Piano d’azione per l’Africa» incentrato sul ruolo «pacificatore» che sono chiamati ad assolvere i capi religiosi.

Foto: via http://www.oikoumene.org/