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«Tutto quello che non vi hanno detto sull’immigrazione…»

Professor Allievi, il titolo è una trovata pubblicitaria o davvero non ci è stato detto tutto sul tema rifugiati e migranti?
«Non è stata una trovata pubblicitaria, anche se effettivamente il titolo ha richiamato l’attenzione di molti. Diciamo che è un titolo fatto con mestiere e furbizia. Ma è vero che non tutto è stato detto in merito alla questione dei rifugiati e dei migranti. Con il collega Dalla Zuanna – demografo con il quale ci occupiamo di questi temi da più di un quarto di secolo – abbiamo analizzato e osservato il fenomeno sin dai suoi esordi, ossia da quando i numeri erano davvero esigui. Abbiamo deciso di partire proprio dall’ABC, per approfondire il fenomeno attraverso dati, numeri, informazioni e poche opinioni. Così abbiamo voluto concepire questo strumento divulgativo e analitico. Per permettere a chiunque di farsi un’opinione sulla base della nostra ricerca».

Quali sono i dati che lei ritiene significativi della vostra indagine?
«Mettendo a confronto i dati demografici, risulta che la forza lavoro in Italia nell’età tra i venti e i sessantaquattro anni dal 2015 sino al 2050 perderà dai 300 ai 350mila unità all’anno e questo comporterà gravi conseguenze anche per il sistema pensionistico italiano. I dati ci dicono anche che le perdite corrispondono più o meno agli arrivi di immigrati in Italia. Anche l’Europa perderà 3 milioni di posti di lavoro all’anno e, anche in questo caso, i numeri combaciano con gli arrivi di rifugiati, migranti e richiedenti asilo. Il Friuli per ogni persona under 15 conta due persone over 60. Insomma la popolazione italiana sta invecchiando e i giovani sono sempre di meno. Nei prossimi vent’anni, per mantenere costante la popolazione in età lavorativa (20-64), ogni anno dovranno entrare in Italia 325 mila potenziali lavoratori».

Pur avendone bisogno, come lei sostiene, molte persone che transitano nel nostro paese non hanno nessuna intenzione di fermarsi. Lo conferma?
«La mobilità nel mondo è un dato di fatto, sia per gli italiani che per gli stranieri, è un elemento naturale da tenere sempre presente. I problemi però ci sono, e sono relativi alla nostra incapacità di proporre una buona accoglienza, di indirizzare queste persone a percorsi inclusivi e professionali. Le misure che l’Europa sta mettendo in campo e la chiusura delle frontiere che alcuni paesi hanno intenzione di praticare determineranno però l’impossibilità di poter raggiungere altre mete e dunque l’Italia diverrà necessariamente una meta definitiva».

L’appartenenza religiosa influisce nelle scelte. L’Italia da questo punto di vista è accogliente?
«Dobbiamo distinguere tra realtà e percezione. Nella percezione l’Italia non ci riesce per via di una isterica tendenza dei mezzi di comunicazione, sempre in cerca di conflitti da raccontare e enfatizzare, utili solamente al dibattito politico, securitario: spesso strumentale ai fini di un consenso, proprio come è avvenuto recentemente per le leggi in Lombardia e nel Veneto sull’edilizia di culto chiamate, per brevità e in modo semplicistico, “anti moschee”. Dal lato pratico in Italia assistiamo invece ad una integrazione spontanea, naturale, che tutti noi riscontriamo nei quartieri delle grandi città e nei piccoli comuni, nelle scuole statali e comunali, nel mondo del lavoro, nei mercati rionali».

L’Islam è sempre «l’osservato speciale», sia in Italia e che in Europa. Eppure le comunità musulmane in Italia sono bene integrate, come lei ricorda, l’Isis e Al Qaeda sono ben distanti dalla fede musulmana, eppure?
«Eppure a Londra oggi abbiamo Khan, che non è stato eletto perché musulmano ma il fatto di esserlo non gli ha impedito di diventare il primo cittadino londinese. Eppure i media, quasi tutti, hanno enfatizzato la sua appartenenza religiosa. La notizia vera, a mio avviso, è che ai londinesi poco importa a quale religione il candidato appartenga ma solamente se, quella persona, è in grado di rappresentarli e di lavorare per il bene comune della loro città. Sembra di sì».

La Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) – insieme alla comunità di Sant’Egidio e alla chiesa valdese – ha attivato i “Corridoi umanitari”, lei cosa ne pensa?
«È certamente un’iniziativa molto importante, non solamente dal punto di vista simbolico ma anche pratico perché coinvolge la cittadinanza rispetto ai temi dell’accoglienza. Ho partecipato ad alcune iniziative per sostenere il progetto con grande convinzione. Temo che spesso, purtroppo, non vi sia la volontà di applicare politiche strutturali, oggi il fenomeno non può più essere circoscritto ad un ambito emergenziale, è diventato un fenomeno di ordinaria amministrazione e come tale va affrontato. I “corridoi umanitari” sono certamente il miglior modo di intervenire con una visione a lungo termine, nel rispetto delle leggi, e a tutela delle persone coinvolte e sostenute. Se l’Europa e l’Italia non vogliono diventare un continente per vecchi devono accettare la sfida dell’accettazione di profughi e migranti».