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Prosegue la protesta dei migranti sull’isola di Lampedusa

Da venerdì 6 maggio una sessantina di persone proveniente da Sudan, Somalia, Etiopia, Yemen ed Eritrea protestano di fronte alla chiesa nel centro del paese di Lampedusa. Lamentano in primo luogo le condizioni in cui vengono ospitati all’interno del centro di accoglienza, diventato da alcuni mesi Hotspot. Inoltre hanno paura di rilasciare le impronte poiché molti hanno parenti o amici in altri paesi europei e temono di non poterli raggiungere. «È la prima volta che vengono effettuate delle denunce così chiare dai profughi che manifestano sull’isola – dice Alberto Mallardo, operatore di Mediterraneah Hope, osservatorio della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia a Lampedusa – venerdì hanno scritto un comunicato, distribuito nella giornata di sabato, quando era presente sull’isola il Vescovo Montenegro al quale hanno spiegato le ragioni della loro protesta».

I migranti hanno protestato per le condizioni di vita nell’Hotspot: è la prima volta?

«Si, nel corso dei mesi erano giunte più volte delle denunce da parte dei migranti e di alcune persone che gravitano intorno al centro. Ma è la prima volta che questa denuncia è manifestata in maniera così decisa e pubblica. Nel comunicato si parla di violenze psicologiche e fisiche e di condizioni igieniche indegne. In base ad altre voci che circolano qui sull’isola non ci sembra inverosimile che cose del genere siano avvenute. L’attenzione di tutti va alle condizione del centro sull’isola, quando in realtà la situazione dell’Hotspot è determinata da scelte prese nel corso del 2015 al di fuori dell’isola, che sapevamo avrebbero creato dei problemi: in particolare la relocation, (redistribuzione dei profughi negli stati europei, ad oggi soltanto 1000 su 160 mila ) con il sistema degli Hotspot, come le proteste evidenziano, non funziona».

Qual è la reazione dei lampedusani a ciò che accade nel centro?

«Va sottolineata la solidarietà di alcuni residenti dimostrata ai migranti che protestano. Parallelamente notiamo una certa indifferenza che a volte sfocia in un’ostilità da parte degli isolani, ma mai diretta. Sembra esserci un certo nervosismo per queste 60 persone che dormono in piazza, oltre alle scelte, come dicevo effettuate altrove».

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Parte della popolazione è intervenuta: come avete reagito voi?

«Da giorni prepariamo il pasto a queste persone e poi abbiamo cercato di dialogare. All’inizio non volevano parlare con nessuno e hanno iniziato la protesta con uno sciopero della fame, in cui erano determinati. Sabato, però, sotto la pioggia i ragazzi ci hanno chiesto di mangiare qualcosa: il collettivo Askavusa, Mediterranean Hope e altre persone dell’isola si sono date da fare per aiutarli in questo bisogno. In parallelo, ci sono stati tentativi di mediazione da parte delle organizzazioni umanitarie che lavorano nell’Hotspot, ma in modo assai limitato, secondo la mia opinione: pochi minuti nella giornata di sabato».

C’è un’ altro tipo di mediazione?

«Come Mh non possiamo mediare tra le istanze dei ragazzi e le possibilità che gli potrebbero essere concesse. Non è il nostro ruolo e lo lasciamo fare a chi ha questi compiti, ma apparentemente non sembra che ci sia stata una volontà di dialogo. La mediazione e l’incontro servono, altrimenti si rimarrà in una situazione di stallo che può portare a disagi per i profughi e per la popolazione».

Foto: Mediterranean Hope