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Shakespeare e il Canone occidentale dopo la Bibbia

Ho tirato su la mia misura di cultura sul sostrato del teatro dei Greci e su quello di Shakespeare. Ero bambino novenne in calzoncini corti sulla cavea di roccia del teatro greco di Siracusa, spettatore delle Troiane di Euripide, la tragedia dedicata al dolore dei vinti dalla pietà dei vincitori, j’accuse del gioco crudele della guerra di una civiltà che non la disdegnava. Ero tredicenne quando il professore di lettere al ginnasio mi fece leggere Shakespeare. Mio padre era militare e con in mano la sua sciabola da parata declamavo «Un cavallo, il mio regno per un cavallo!», il finale di Riccardo III di Shakespeare: il sovrano che invoca salvezza, disarcionato lui e caduta nella polvere della battaglia la sua corona d’Inghilterra conquistata con una lunga catena di delitti di sangue. La letteratura inglese ha un genio universale che appartiene a lei sola e nobilita il primato della sua lingua: i suoi grandi scrittori hanno saputo affabulare racconti che sono al contempo avventure fascinose e metafore le più alte dell’enigma della condizione umana, della lacerazione del mondo.

William Shakespeare (1564-1616, quattrocento anni dalla morte), il «bardo» dell’età elisabettiana, è stato il campionissimo assoluto della letteratura inglese, la più letta, la più amata, la più universale. La Bibbia, il Libro sacro è stato per un millennio e mezzo la Legge, il «Canone occidentale». Ha scritto Harold Bloom, celebrato critico letterario americano, che – finito nel Cinquecento quello che lo storico medievista francese Jacques Le Goff ha chiamato il Tempo sacro dell’uomo, avviata con Lutero che inchioda sul portale della chiesa del castello di Wittenberg, con le sue celebri 95 Tesi, l’inizio dell’età del dubbio critico che è stata, io penso, l’età dell’oro dell’Europa moderna, un tempo breve che oggi, nella post-modernità, è finito – l’opera drammaturgica di Shakespeare ha sostituito la Bibbia come Canone dell’Occidente. Tant’è, non è esagerazione.

Quanti rimandi alla Bibbia ci siano nelle più di trenta opere tra tragedie, commedie, storie inglesi nel laicissimo teatro di Shakespeare lo hanno documentato frotte di analisti. Lo spazio concessomi mi consente di citare solo George Steiner, francese, «pellegrino ebraico degli inviti», cosmopolita cioè, il massimo studioso del XX secolo di Letterature comparate a partire dalla Bibbia. Dell’età moderna del dubbio scettico e metodico, della Ragione cartesiana che è stata per quattro secoli la ferratura dell’Uomo occidentale nessuno è stato interprete come Shakespeare. Che cos’è il celeberrimo dubbio di Amleto, Principe di Danimarca, che ne frena l’azione di vendetta, se non il pathos di smarrimento, di angoscia esistenziale vissuta in un mondo out of joints, sconnesso dalle sue giunture, che deve cercare una connessione nuova, una nuova ragion d’essere?

L’opera di William Shakespeare lungo questi 400 anni si è caricata, secolo dopo secolo, di valore aggiunto. È stato il Romanticismo, non per niente il grande movimento europeo di ribellione, sismografo della Krisis, del declino dell’Occidente, a proiettare lo shake-scene elisabettiano come lo chiamava, tra invidia e riconoscimento, Christopher Marlowe, suo competitore nel teatro di Londra, come la superstella della letteratura di ogni tempo. Shakespeare andrebbe letto da tutti i giovanotti che «scendono in campo» in politica. Del potere, della corruttela del potere nessuno ha indagato come lui il «Grande meccanismo». Rubo ancora un po’ di spazio per un paio di versi del brano di humour nero più potente della letteratura mondiale (Amleto v. 1). Il principe con Orazio è casualmente al cimitero il giorno della sepoltura di Ofelia. Un becchino, scavando la fossa, butta in aria vecchie ossa dissotterrate: ”Quel cranio una volta aveva una lingua dentro di sé – dice Amleto ad Orazio –. E guarda come il mascalzone lo getta a terra come fosse la mandibola di Caino. Quella che questo somaro strapazza potrebbe essere la zucca di un politicante, uno capace di imbrogliare anche Dio. O no?».