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«Non possiamo pensare solo ai luoghi patrimonio dell’umanità dimenticando quell’umanità che vive intorno al patrimonio»

Domenica 27 marzo molte testate in tutto il mondo annunciavano la riconquista di Palmyra da parte dell’esercito del dittatore siriano Bashar al Assad. La città, famosa prima della guerra per il suo sito archeologico, considerato uno dei grandi patrimoni dell’umanità, era stata conquistata dal Daesh nel maggio del 2015, e da allora era diventata un simbolo della furia iconoclasta che nella propaganda del gruppo jihadista ha sempre avuto grande spazio.

L’ultima offensiva dell’esercito siriano, durata tutto il mese di marzo e supportata anche dai bombardamenti russi, ha causato una nuova sconfitta militare al Daesh, che negli ultimi mesi sta subendo pressioni da diverse direzioni, tanto che le ultime stime parlano di una perdita di territorio pari a circa il 40% rispetto a quello della fine del 2014, il momento di massima espansione e forza del gruppo in Medio Oriente.

Tuttavia, per ora nella città di Palmyra non si assiste a un ritorno di chi era stato costretto a fuggire, e questo fa pensare a una liberazione incompleta. Lo pensa anche Alberto Savioli, archeologo dell’Università di Udine, dal 1997 impegnato in Siria, Libano e Iraq, luoghi nei quali ha vissuto per 15 anni e nei quali ha lavorato per conto dell’Unione Mondiale per la Conservazione dell’Ambiente a una ricognizione etnografica e socio-economica sulle tribù a nord di Palmyra. Dal 2012 segue il Progetto Archeologico Terra di Ninive nel Kurdistan Iracheno.

È già possibile tracciare un bilancio dei danni causati al patrimonio storico-artistico e archeologico del sito?

«Va ricordato prima di tutto che il sito era stato già precedentemente danneggiato, ma non distrutto, dagli scontri tra esercito siriano e ribelli. Quello che ha fatto l’Isis è stata poi una distruzione sistematica di alcuni complessi monumentali, come il tempio di Baal Shamin, la cui cella è stata fatta esplodere e del quale rimangono in piedi soltanto il recinto, l’area sacra e due colonne. Inoltre, l’Isis si è data alla distruzione sistematica di una serie di tombe, le più monumentali della Valle delle tombe, come quella di Elahbel e quella dei due fratelli , quindi da questo punto di vista hanno fatto molti danni. Questi danni macroscopici li avevamo già visti, perché era stato lo stesso Isis a pubblicizzare questi danni. A tutto questo scenario, già disastroso, si è aggiunta la liberazione o riconquista della città da parte dell’esercito siriano con copertura aerea russa, e questa operazione ha causato gravi danni non solo alla storica via colonnata, ma anche al castello mamelucco di Qalaat Fakhr ad-Din ibn Maan. Insomma, alla distruzione sistematica dell’Isis si sono aggiunte quelle incontrollate dell’esercito».

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Foto By YvonnefmOwn work, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5443607

Visto il modo in cui sono state pubblicizzate e vista la scelta degli obiettivi, possiamo considerare le distruzioni di Daesh come un atto politico?

«Certamente. Le distruzioni dell’Isis vengono compiute con un esplicito fine ideologico, ma dietro a questo c’è un disegno politico. Dico “ideologico” e non “religioso” perché l’estremizzazione che il Daesh fa della religione si può equiparare a un’ideologia. Gli stessi teologici islamici hanno scritto dei documenti in cui condannano la visione del Daesh come non conforme alla dottrina islamica».

Eppure vengono raccontati dalla propaganda del Daesh come azioni religiose.

«Sì, questi atti vengono mascherati e raccontati come gesti di natura religiosa, ma in un numero della primavera 2015 di Dābiq, la rivista mensile dell’Isis, la valenza politica viene resa esplicita. In un articolo, infatti, si racconta che, siccome sono stati gli occidentali ad aver insegnato l’archeologia ai mediorientali, e siccome i regimi e i governi di Iraq e Siria l’hanno utilizzata per cementare un sentimento nazionale o nazionalista, che loro rifiutano di riconoscere, allora la distruzione è una forma di contrasto all’occidente. Questo si lega a un altro gesto simbolico compiuto dal Daesh, ovvero l’abbattimento con i bulldozer della frontiera tra Siria e Iraq: nel video che mostra l’evento, la voce dice che “è stata distrutta la frontiera di Sykes–Picot”. Ecco, qui c’è la chiave di lettura. L’accordo di Sykes–Picot venne fatto nel 1916 e portò le potenze mandatarie a spartirsi il Medio Oriente dividendosi i confini. Nell’abbattere questa frontiera, i miliziani di Daesh compiono un atto politico di distruzione di due paesi che non riconoscono come tali. Quando viene fondato il Califfato, l’unica entità che il Daesh riconosce, si rende necessaria la distruzione del patrimonio archeologico per compiere il progetto politico: si riparte da zero, tutto quello che viene prima dev’essere cancellato, anche perché si tratta di monumenti, rovine, che spesso, soprattutto per quanto riguarda l’Iraq, erano state utilizzate a scopo nazionalista e propagandista».

Per Palmyra possiamo davvero parlare di una liberazione?

«È una questione delicata. Chiaramente nel momento in cui si sconfigge il Daesh si parla di “liberazione” e naturalmente non si può dire che una riconquista da parte del governo, del regime siriano, sia peggiore dell’occupazione del Daesh, che è un male estremo. Tuttavia, la riconquista di Palmyra è avvenuta anche con l’impiego di corpi scelti dell’esercito siriano, come le Suqur al-Sahara, i “Falconi del deserto”, che in altre aree del Paese si sono lasciati andare alle decapitazioni. Ecco, se quello che noi consideriamo una forma di brutalità caratteristica del Daesh viene compiuta allo stesso modo dai liberatori, cosa accade? Accade che la popolazione sunnita, che terminati gli scontri dovrebbe ritornare a casa, continua a scappare per paura di vendette settarie. Infatti la gente è scappata nelle aree di Deir el-Zor, oppure a nord di Aleppo, nella zona di Azaz. L’accusa è sempre la stessa: in quanto sunniti spesso vengono incolpati di aver simpatizzato per il Daesh, di averne favorito l’ingresso nelle città e quindi temono di essere uccisi. Inoltre, quando parliamo di liberazione dobbiamo ricordare che è avvenuta anche con intenso bombardamento russo, che è durato un mese. Gli attivisti di Palmyra per tutto questo tempo hanno denunciato la morte di civili e la distruzione delle abitazioni, e a nessuno importava niente degli abitanti di Palmyra. Il problema è che quando il regime vuole riconquistare un territorio coadiuvato dai russi non distingue tra fazioni belligeranti, che siano il Daesh o che siano i ribelli, e civili che abitano quelle zone. Assad considera gli abitanti di queste aree alla stregua dei terroristi, e quindi queste aree vengono bombardate massicciamente con l’aviazione, con barrel bombs e con ordigni non convenzionali, e questo provoca vere stragi di civili».

Pur senza sminuire il valore dei beni archeologici sul territorio, non trova grave che faccia più notizia la riconquista della zona archeologica di Palmyra rispetto al dramma quotidiano dei civili?

«Chiaramente Palmyra è un patrimonio dell’umanità e come tale agli occhi del mondo è all’attenzione di tutti, in primis chi fa l’archeologo. Io ho lavorato cinque anni a Palmyra, e quindi naturalmente ho particolare attenzione per quel sito, e ho sofferto moltissimo quando il Daesh ha distrutto quei monumenti. Allo stesso modo mi hanno colpito in prima persona le distruzioni compiute a Mosul, dove sto lavorando adesso. È il mio campo di lavoro e quindi soffro doppiamente, però non possiamo prestare esclusiva attenzione al patrimonio dell’umanità dimenticando quell’umanità che vive intorno al patrimonio. Tuttavia, che questa umanità ai nostri occhi conti ben poco non lo dico io, ma lo dimostrano i numeri, il modo in cui l’Europa sta accogliendo i nostri profughi, gli accordi che vengono fatti per rimandare indietro queste persone che scappano dalla guerra. A pensar male viene da dire che parlare di Palmyra e parlare di beni storico-artistici significa poter stringere delle alleanze con chi è scomodo ma funzionale, come Assad e la Russia, mentre parlare dei morti significa non poter collaborare con chi ha le mani sporche di sangue».

Foto CC BY 1.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=78276