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Un mondo speciale in cui imparare a vivere

Sabato 2 aprile si è celebrata in tutto il mondo la «Giornata della consapevolezza dell’autismo». Non è il primo anno che questo avviene, ma stavolta i media (e non solo) si sono accorti della diffusione e del peso sociale di questa sindrome e sui giornali quotidiani, sui settimanali di informazione (non solo su quelli specialistici) in televisione e sul web, l’autismo l’ha fatta da padrone. Sia con dibattiti sia con approfondimenti sia con film sia con raccolte di fondi a favore di diagnosi e terapia. Ovviamente sono strafelice di questa rinnovata attenzione: sino a pochi anni fa, infatti, ero fra i pochi, insieme a mia moglie, a scrivere articoli (sul giornale che dirigo, e poi su Riforma, ma anche su altri, fra cui Il Sole 24 ore) relativamente ai problemi legati all’autismo, sulla condizione delle famiglie, sulla scarsità di risorse e, anche, sull’impiego sbagliato di queste poche risorse.

Non avevamo, però, un merito particolare: semplicemente ci siamo trovati a convivere con questa realtà 27 anni fa, quando abbiamo scoperto che gli occhi del nostro secondogenito evitavano i miei e quelli di sua madre, quelli di qualsiasi essere umano. Un bimbo che sembrava navigare in un mondo di estranei, assorto in un altrove a noi inconoscibile. Mia moglie ha dovuto conquistarsi con determinazione quello che per tutte le mamme è naturale: un semplice sorriso, uno sguardo in cui si intuisse la luce del «riconoscimento». E nessuno che sapesse darci una spiegazione, anzi, quando noi avanzavamo il timore che potesse trattarsi di autismo, venivamo persino derisi. Poi per noi arrivarono Zappella e Arduino (autore del libro Il bambino che parlava con la luce, Einaudi), la situazione lentamente cambiò con una nuova consapevolezza, sino a oggi quando, ormai, l’autismo è entrato nel lessico comune.

Ma la nostra vita è stata, in qualche modo, un percorso a ostacoli per superare, di anno in anno, i problemi che si presentavano, sempre nuovi, sempre complessi. Così come lo è stata per il nostro primogenito a cui dobbiamo molta riconoscenza e qualche scusa. In primo luogo la conquista dell’empatia: sfondare l’indifferenza di quel piccolo marziano sinché lui non accettasse di guardarci, di farsi toccare e coccolare. E in questo caso non c’è terapeuta che conti: solo l’amore di una madre può vincere la partita creando la reciprocità affettiva ed emotiva che è una delle armi vincenti – come, a ragione, sostiene uno dei principali esperti internazionali di questa sindrome, Michele Zappella – per sfondare il muro autistico. E, ancora, la ginnastica quotidiana per stimolare i suoi interessi: per mio figlio furono vincenti acqua e fuoco, casa allagata e suppellettili bruciate in tanti incidenti di percorso.

Ma poi bisogna entrare nel mondo degli altri, partendo dalla scuola e dal tempo libero. Per questo si rese necessaria l’associazione fra i genitori. La nostra (del 2001) fu una delle prime in Piemonte, con tante incognite, ma idee abbastanza chiare: bisognava far conoscere alle autorità scolastiche, amministrative e sanitarie il nostro problema e sollecitare soluzioni, anzi, inventarcele insieme. E la cosa più difficile era far capire l’estrema complessità dello spettro autistico: ognuno dei nostri figli aveva problemi diversi, manifestazioni originali, esigenze disparate. Quello che si era sperimentato con successo con uno non andava bene per l’altro e bisognava ripartire daccapo.

Ma la scuola non dura tutto il tempo e, poi, finisce. Allora l’incubo del tempo libero, perché una delle cause più soventi di regressione per un soggetto con autismo è la noia, capace di dissipare tutti i progressi acquisiti. Da qui i progetti di integrazione e di attivazione in modo che i nostri figli potessero girare per la città, frequentare amici, andare al bar o in pizzeria, o fare sport, qualsiasi sport. E allora inventarsi finanziamenti, progetti, attivare un’organizzazione, contattare e pagare gli operatori. Finché il bimbo diventa adulto, con tante capacità e autonomie acquisite, ma anche con nuovi problemi, a partire da quello affettivo e sessuale, sino alla semplice relazione interpersonale, alla ricerca di amici, all’urgenza di non sentirsi troppo diverso. Per non parlare di quando resterà solo, quando noi non ci saremo più a proteggerlo.

Per ognuna di queste cose la nostra vita è stata la ricerca di soluzioni (più o meno efficaci) e, oggi, se guardiamo indietro al nostro cammino, ci accorgiamo che le idee e le soluzioni sperimentate in passato, in qualche modo fanno parte della quotidianità, esistono e vengono perfezionate ancora.

Ma per noi resta l’oggi, il mondo in cui conviviamo con nostro figlio e che resterà normalmente paradossale sinché durerà la nostra vita. Un «oggi» dopo migliaia di «oggi» con cui abbiamo convissuto. Molta letteratura utilizza termini accattivanti per definire la disabilità: si chiamano i nostri ragazzi «speciali» o «diversamente abili», ma, francamente, sarebbe meglio esercitarsi alla pratica e meno alla retorica. È vero che i nostri figli hanno abilità impensabili e vivono in mondi speciali. Ma nessuna di queste capacità riesce a dar loro l’autonomia di cui avrebbero bisogno, semplicemente per sopravvivere nel mondo esterno che «speciale» non è.

Non per questo rinnego il passato, la straordinaria esperienza che è stata vivere in una famiglia «autistica» che, con determinazione, entrava in relazione con la società. Un patrimonio faticoso di conquiste, di istanti di dirompente felicità e di determinazione ad ingoiare il magone quotidiano. Senza questo figlio, sicuramente, tutto ci sarebbe stato più facile, ma non avremmo mai vissuto nello speciale e fantasmagorico mondo che lui confeziona ogni giorno attorno a noi e in cui ci costringe ad abitare. Anche l’amore che ci lega non sarebbe questo scrigno di ricordi e di consapevolezza.

Allora era difficile spiegarlo alla gente, anche ai parenti più stretti, oggi mi pare che la nostra esperienza sia diventata comprensibile e compresa. Insomma c’è ancora molto da fare, ma molto è stato fatto.

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