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Losanna un anno dopo

E’ trascorso un anno dall’esplodere della questione degli 8 rifugiati che hanno occupato i locali del tempio Saint-Laurent a Losanna per protestare contro il rinvio nella nazione di arrivo in Europa, secondo quanto previsto dai dettami dell’oramai arcinoto trattato di Dublino. Nel loro caso si trattava di un rientro in Italia, sulle cui coste erano sbarcati alcuni mesi innanzi, prima di venire inviati in vari centri di accoglienza lungo lo stivale, da cui sono fuggiti lamentando le critiche condizioni psicologiche e sanitarie cui erano obbligati a sottostare. Dopo lo sbarco in Svizzera la decisione di occupare il tempio protestante di Losanna in centro alla città, luogo neutro e assai visibile per proseguire la propria battaglia. Per fornire appoggio ai ragazzi, spaesati in terra straniera con gli ovvi problemi di comunicazione e gestione del quotidiano, è nato il comitato “Collectif R” dove la R sta proprio per rifugiati, il fulcro dell’attenzione, l’emergenza del momento.

Abbiamo seguito a più riprese la vicenda, divenuta emblema a suo modo delle enormi difficoltà patite dall’Europa nell’affrontare il tema migranti; non sono mancate le prese di posizione che hanno fatto discutere, come quella del consiglio sinodale che ha chiesto ai ragazzi di sgomberare i locali perché la prolungata permanenza sta rendendo disagevole la gestione quotidiana delle attività della comunità religiosa. Accoglienza verso il prossimo, ragion di stato, norme asettiche e solidarietà, c’è di tutto in questa storia.

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La legge sulle relazioni fra stato e chiesa in Svizzera riconosce come luoghi appartenenti al pubblico demanio gli edifici religiosi; questi vengono dati in concessione alle varie confessioni. La chiesa di Saint-Laurent è quindi proprietà pubblica. La norma prevede inoltre che tutti gli utilizzi degli spazi concessi per attività differenti da quelle di culto vadano autorizzate dal consiglio di parrocchia e dalle autorità municipali e non da altri organi quali in questo caso il consiglio sinodale che non deve avere invece voce in capitolo, secondo quanto riportato da una recente sentenza ad hoc emessa dal Consiglio di Stato, l’organo esecutivo cantonale sollecitato proprio dal consiglio sinodale ad esprimersi sulla liceità dell’occupazione.

Ad un anno di distanza la vicenda è sempre di piena attualità e i promotori del comitato continuano a battersi perché venga messa in atto una moratoria che blocchi l’aspetto più critico degli accordi di Dublino, quello per l’appunto relativo all’obbligo di permanenza nello Stato di approdo europeo. Per tenere alta l’attenzione sulla questione i simpatizzanti del collettivo hanno innalzato una lunga barriera metallica nella centrale piazza de la Riponne, ai piedi della scalinata del palazzo di Rumine, edificio storico, già sede dell’università e che oggi ospita vari musei e biblioteche, ma soprattutto il parlamentino del cantone del Vaud. L’intento è quello di rendere plasticamente visibile la difficoltà che esiste nel valicare una recinzione seppur sottile, e come una rete innalzata possa divenire ostacolo non solo fisico, ma anche strumento di repressione psicologica e di rifiuto del dialogo.

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Fra canotti pneumatici, giubbotti di salvataggio, valigie rotte, abiti zuppi, tende e giochi abbandonati i passanti si trovano immersi per un istante in luoghi distanti anni luce eppure così vicini, così prossimi: Lesbo come Idomeni, come Budapest, Vienna, Calais e domani chissà. L’installazione è stata ribattezzata “La recinzione della vergogna” dagli organizzatori. Applicando alla lettera gli accordi europei le autorità cantonali e federali elvetiche assumono un comportamento pilatesco, per lo meno da un punto di vista politico, delegando a varie organizzazioni laiche e religiose le incombenze legate all’accoglienza. L’azione del collettivo, capace in questi mesi di richiamare in piazza migliaia di persone in varie manifestazioni, ha portato comunque alla soluzione dei guai per 34 rifugiati che hanno potuto evitare con vari cavilli le trame a maglie fitte degli accordi di Dublino. Restano i ragazzi di Saint-Laurent e i loro caso divenuto emblema delle paure nell’affrontare l’accoglienza del prossimo, il più importante dei precetti cristiani. Intanto sono migliaia le firme raccolte per richiedere alla Svizzera di adoperare il principio di sovranità nazionale, passo ritenuto utile per ottenere un primo stop ai procedimenti di rinvii previsti dall’Unione europea, nella speranza che il continuare a prendere tempo possa infine portare ad un ripensamento generale delle normative e dell’intero tema.