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Giustizia è fatta?

Infine, dopo tredici anni di latitanza e quasi sei di processo, è arrivata la sentenza. Radovan Karadžić, presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina dal 1992 al 1996, il 24 marzo è stato condannato a 40 anni di reclusione in primo grado dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia dell’Aja per il genocidio di Srebrenica, per crimini contro l’umanità durante l’assedio di Sarajevo e per le altre campagne di pulizia etnica contro i civili non serbi durante la guerra in Bosnia.
Persecuzione, sterminio, omicidio, deportazione, fino al genocidio, riconosciuto però soltanto per Srebrenica nel luglio 1995 e non per le altre sette municipalità della Bosnia Erzegovina – Ključ, Sanski Most, Prijedor, Vlasenica, Foča, Zvornik e Bratunac – come richiesto dall’accusa. Un campionario di responsabilità penali che non ha nulla da invidiare alle atrocità naziste ed eppure, a vent’anni dalla fine della guerra in Bosnia, la condanna lascia amareggiati i parenti delle vittime. Ne parliamo con Andrea Oskari Rossini, redattore di Osservatorio Balcani e Caucaso, che ha seguito il processo e, da Sarajevo, è testimone delle reazioni dell’opinione pubblica.

Una sentenza che delude. Perché?
«In primo luogo perché è difficile spiegare ai famigliari delle vittime come mai una persona giudicata colpevole di genocidio non venga condannata all’ergastolo e poi perché non è stato riconosciuto l’intento genocidario della leadership serba nei confronti dei musulmani di Bosnia sin dall’inizio della guerra. Il fatto che Karadžić non abbia ricevuto una pena commisurata alla gravità del reato ha creato molta freddezza nell’opinione pubblica, anche se in questi ultimi giorni le posizioni di protesta si stanno un po’ ammorbidendo perché diversi giuristi hanno evidenziato che di fatto l’impianto accusatorio è stato accolto dai giudici e la sostanza del genocidio è stata riconosciuta. Ci sono questioni di tecnica giuridica complesse alla base della decisione, perché il Tribunale dell’Aja è una corte istituita ad hoc dalle Nazioni Unite per perseguire i crimini della ex Jugoslavia che utilizza un sistema misto di common law, in uso nel sistema giuridico anglosassone, ed elementi di civil law della tradizione anglosassone. Inoltre la nostra esperienza di tribunali speciali ci insegna che il diritto penale internazionale è ancora imperfetto; abbiamo una convenzione Onu che ci dice che cos’è un genocidio ma non un codice penale internazionale che stabilisce esattamente come debba essere sanzionato. Il tempo trascorso dai crimini commessi, poi, non ha aiutato. Bisogna aggiungere che, lo stesso giorno della sentenza di condanna a Karadžić, è stata arrestata proprio all’Aja Florence Hartmann, giornalista francese ed ex portavoce di Carla del Ponte, da sempre in prima linea per la difesa del diritto dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime ad essere informati. E’ accusata di aver divulgato notizie riservate e il fatto che oggi sia detenuta in isolamento nello stesso carcere dove sono reclusi criminali come Mladić non è un bel segnale per chi già nutre diffidenza nei confronti della giustizia dell’Aja».

Come mai criminali di guerra come Karadžić o Mladić, all’epoca capo di stato maggiore dell’esercito della Repubblica Serba di Bosnia, sono riusciti a restare latitanti così a lungo?
«Le forze internazionali, subito dopo la guerra, hanno fatto finta di nulla per non arrivare a inasprire un clima già molto teso (diecimila persone a Belgrado hanno protestato il giorno dell’estradizione di Karadžić all’Aja, a luglio 2008, ndr). Prima di poter intervenire si è dovuto aspettare il ricambio della classe politica».

Cosa resta della Bosnia come luogo di convivenza fra culture e religioni diverse?
«Vent’anni in questo caso sono utili per valutare, oltre la responsabilità criminale della leadership serbobosniaca, anche le conseguenze politiche degli atti commessi. Mi sembra purtroppo che la pulizia etnica abbia avuto successo. Oggi tutte le regioni e le municipalità sono monoetniche e questo è in gran parte conseguenza delle politiche di Karadžić e di Miloševic. L’elemento più preoccupante è il fatto che il sistema dell’educazione è diviso, così come lo sono gli spazi pubblici e i media, come si è visto anche dopo il processo, dove abbiamo assistito a reazioni molto diverse. E’ un grosso problema per il futuro del paese, perché ci sono generazioni che crescono seguendo versioni contrapposte della storia recente».

Anche l’Occidente, con gli accordi di Dayton, è in parte responsabile di questo processo.
«L’Europa e gli Stati Uniti volevano che la guerra finisse e non hanno pensato troppo a che tipo di pace si prospettava. Gli stessi accordi di Dayton dovevano durare un tempo molto limitato ma sono passati vent’anni e non è cambiato nulla. Gli stessi attori della guerra parteciparono agli accordi di pace, riuscendo a traferire su carta quelle che erano state le conquiste sul terreno. Così, per rispettare le volontà dei negoziatori a Dayton, in Bosnia si è creato uno Stato tutto declinato in senso etnico, diviso in due entità con poteri autonomi e una presidenza collegiale che non rispetta i diritti umani, perché tra l’altro esclude le minoranze, che non possono avere cariche pubbliche».

Nel 1994 la Chiesa Ortodossa Greca descrisse Karadžić come un difensore della pace e lo decorò con l’Ordine dei Cavalieri di San Dionisio di Zante. Qual è il ruolo delle religioni nel processo di ricostruzione sociale?
«In generale la posizione di cattolici, ortodossi e musulmani durante la guerra è stata imbarazzante e dopo non c’è stata una vera presa di distanza dai crimini commessi. C’è un dialogo interreligioso tra i vertici delle chiese ortodossa e cattolica con la comunità islamica ma finora non è stato in grado di produrre un vero cambiamento rispetto al trauma lasciato negli anni ’90».

Chi è rimasto oggi a Srebrenica?
«Srebrenica è il buco nero della Bosnia Erzegovina e della comunità internazionale, uno dei luoghi più difficili della Bosnia orientale, dove il progetto di pulizia etnica è stato portato avanti fino alla sua tragica conclusione. E’ però una notizia positiva che il giovane sindaco di Srebrenica, Camil Durakovic, un bosniaco musulmano sopravvissuto al massacro, amministri la città con un atteggiamento pragmatico e di dialogo con i serbi bosniaci e i serbi di Belgrado, perché porta a un allentamento della tensione. Nonostante la visita del premier serbo Aleksandar Vučić al memoriale di Potocari, lo scorso luglio, sia stato un gigantesco fallimento, visto che è stato cacciato a sassate, bisogna comunque rimarcare che ha fatto il gesto di andare a Srebrenica e ha chinato il capo di fronte alle vittime. Sono piccoli passi su un cammino di ricostruzione sociale».

 Foto: Michael BükerOpera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=6405619