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Per l’Europa

Rue de la Loi, rond point Schuman, Arts-loi, Maelbeek, place Luxembourg e tante se ne potrebbero ancora citare. Da tempo non sono più soltanto nomi di strade o fermate metro di una città europea, ma posti familiari per molti di noi. Per chi a Bruxelles ci va una volta a settimana per un incontro di lavoro, periodicamente per conferenze ed eventi vari o per far visita a un amico, un parente che lavora presso le istituzioni europee o le tantissime rappresentanze di regioni, aziende, associazioni e organizzazioni presenti in città. Per le ragazze e i ragazzi provenienti da tutto il mondo, che a Bruxelles hanno deciso di trasferirsi per studiare, per darsi un’opportunità, per essere parte attiva dello straordinario progetto di costruzione di un’Europa unita.

Per la maggior parte di queste persone place Luxembourg è semplicemente «place Lux» che il giovedì si riempie fino all’inverosimile, pioggia permettendo, per l’aperitivo, rigorosamente a base di birra. Schuman è la stazione metro che ospita perennemente cantieri di operai a lavoro, con tunnel di percorsi alternativi che ti fanno intravedere la banchina solo dopo parecchi metri.

Rue de la Loi più che «via della legge» è la «via della politica», dove il silenzioso dialogo tra il palazzo della Commissione e quello del Consiglio Ue è continuo e dove chi la percorre, a passo svelto, affida al vento parole in una molteplicità di lingue. Non mi è mai capitato, camminando sui marciapiedi di questa interminabile strada, di sentire parlare la stessa lingua da più di due persone. Meraviglioso. Andare al marché nei pressi di Gare du Midi la domenica è un rito, e non solo per portarsi a casa i manghi più gustosi che gli abili e simpatici venditori magrebini non mancano mai di farti assaggiare, ma anche per entrare in contatto con la loro cultura, attraverso uno squisito té alla menta marocchino o il pane arabo preparato al momento.

Bruxelles è anche questo. Non soltanto una città, ma una casa europea, di cui tutti noi abbiamo le chiavi. Tutti noi che crediamo nell’Europa, e anche di chi dice di non crederci ma sotto sotto sa di non poterne fare a meno. Guardando dall’Italia le immagini di una Bruxelles martoriata, mi sono sentita colpita personalmente, mi sono sentita a Zaventem e a Maelbeek, luoghi di passaggio quasi imprescindibili per chi va a Bruxelles. Tutti noi eravamo lì. E ancora una volta ci hanno colpiti tutti. Ancora. Da New York a Bruxelles, passando per Londra, Madrid, Parigi, Tunisia, Turchia, Mali, Nigeria. Inutile evidenziare il fil rouge che lega questi tragici eventi tra di loro, tanto nella sistematicità quanto nell’imprevedibilità. In queste ore lo stanno già facendo in molti, in maniera più o meno autorevole, come ormai è consuetudine. Si, consuetudine, una parola che mai vorremmo veder associata a fatti del genere, ma che purtroppo non è più così improprio utilizzare. Ed è questo che inizia a spaventarmi per davvero. Oltre all’orrore, alla paura, alla rabbia, alla caccia ai kamikaze e ai complici, alle deliranti affermazioni islamofobiche, quanto accaduto a Bruxelles sta portando con sé anche un altro dramma, quello della rassegnazione e dell’assuefazione.

L’impressione è quella che ci si stia abituando a queste carneficine, che si inizi a viverle con rassegnazione, «tanto sapevamo che prima poi doveva accadere», ha dichiarato qualcuno a Bruxelles, o ancora peggio, con quell’individualismo dettato da un primordiale e comprensibile attaccamento alla vita da parte di ciascuno «meno male che stamattina non ho preso la metro»; la stessa mentalità che portata su scala nazionale ci fa sentire quasi sollevati se non ci sono italiani tra le vittime. E addirittura siamo capaci di fare paragoni, tra un attentato e l’altro, cercando, a seconda dell’analista che si accinge a una simile operazione, aspetti più o meno gravi rispetto alla volta precedente. Tutto ciò è assurdo. Tanto assurdo quanto reale. Ed è in preda a questa assurdità che ci avvolge tutti, che anche io ho formulato qualche riflessione che si affianca alla straziante partecipazione emotiva. Come quella che mi fa pensare che l’attacco di Bruxelles non sia stato soltanto l’ennesimo colpo alle nostre civiltà, l’ennesimo episodio terroristico infame sul quale, accanto al sangue delle vittime e dei feriti, scorrono anche i tanti, abusati e retorici discorsi di chi cerca di analizzare, «soluzionare» e prevedere, con una pretesa ampia tanto quanto le prospettive di insuccesso.

No, l’attacco a Bruxelles è stato anche altro. Per la prima volta, chi ogni giorno contribuisce alla costruzione, o semplicemente al mantenimento, dell’Europa unita, ha provato la stessa impotenza e lo stesso smarrimento degli uomini e delle donne che fino a settant’anni fa non avevano mai conosciuto un tempo di pace così duraturo, garantito proprio dalla creazione e dall’esistenza dell’Unione. Per la prima volta chi ha il compito e il dovere di adottare decisioni che in una comunità come la nostra, quella europea, dovrebbero regolarne la pacifica convivenza all’interno e buone relazioni con l’esterno, ha vissuto da vicino, in prima persona, il dramma e allo stesso tempo l’urgente necessità di un’azione comune e risoluta per minare alla radice tali fenomeni. Ora più che mai i 28 Stati membri devono comprendere all’unanimità che non abbiamo bisogno di nuovi muri, ideologici e fisici, lungo vecchie e anacronistiche frontiere, ma di «ponti», all’interno delle nostre società, tra centro e periferia, tra culture diverse, tra i nostri paesi e con chi dall’esterno ancora, fortunatamente ci vede come «un sogno da raggiungere». Gli strumenti di oggi non possono essere quelli del passato. Sarebbe tanto tragico quanto anacronistico che le armi e i fili spinati prendessero il posto dell’integrazione, della cooperazione, della conoscenza reciproca, del dialogo politico, culturale, diplomatico ed economico, princìpi da cui ripartire, contro il terrorismo e per l’Europa.

Foto: CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=192755