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Due passaporti due misure

In questi difficili giorni, mentre guerre, migrazioni e terrorismo internazionale mettono a dura prova l’epocale conquista europea della libertà di movimento sul continente, Henley & Partners, una società britannica che si occupa d’immigrazione e cittadinanza, ha pubblicato un’interessante «classifica dei passaporti». Già, perché come si evince dai colori di questa mappa non tutte le cittadinanze godono della medesima libertà di movimento nel mondo. Noi viziati «cittadini europei» tendiamo a ignorare il problema, anche perché per chi vive e si sposta all’interno dell’area sovranazionale creata dai 26 paesi firmatari del trattato di Schengen sono stati aboliti sia i visti che i permessi di soggiorno. Ora, che differenza c’è tra questi due documenti? Solo facendo chiarezza su questo punto capiremo in che senso non tutti i passaporti hanno lo stesso peso.

Il visto d’ingresso è l’atto con il quale uno stato concede a un cittadino straniero il permesso di accedere al proprio territorio; ma attenzione: per un certo periodo di tempo e per determinati fini. Tradotto nel quotidiano: se, da italiano, voglio fare tre settimane di vacanza in Iran, prima di partire dovrò procurarmi (e pagare) un visto turistico presso il consolato iraniano in Italia.

Il permesso di soggiorno è invece un’autorizzazione rilasciata dagli Interni del paese ospitante che un cittadino straniero deve richiedere per poter vivere stabilmente in quel paese (per ottenerlo è necessario addurre una motivazione di lungo periodo: studio, lavoro e ricongiungimento famigliare sono i tre casi principali). Tradotto nel quotidiano: se decido di aprire un’azienda in Iran, per rimanervi a curare la mia attività dovrò domandare alla polizia di Stato iraniana un permesso per motivi di lavoro.

In sintesi, il visto (che afferisce agli esteri) garantisce l’accesso a un paese straniero ma solo il permesso di soggiorno (che afferisce agli interni) consente la permanenza. È importante ribadirlo, perché a seguito dell’accordo Ue-Turchia sui migranti in questi giorni si è straparlato dell’eventuale apertura dell’area Schengen (erroneamente chiamata «Europa», perché non tutti gli stati Ue ne fanno parte) ai cittadini turchi: sia chiaro una volta per tutte che questa liberalizzazione riguarda i visti, non i permessi di soggiorno, il che significa che scaduti i tre mesi all’interno dell’area Schengen i cittadini turchi dovranno comunque rimpatriare (la stessa cosa accade a un cittadino italiano negli Stati Uniti, o in altri paesi extraeuropei).

Sgombrato il campo da queste confusioni si capisce in che termini la classifica di Henley & Partners risulti interessante. Perché per stilarla la società britannica ha scelto di contare il numero di accordi di liberalizzazione visti di cui gode ogni singola nazionalità. Stando ai trattati bilaterali attualmente in vigore, un cittadino tedesco può ad esempio viaggiare senza visto in 175 paesi, un cittadino svedese in 174, un cittadino inglese, finlandese, francese, italiano e spagnolo in 173, un cittadino americano in 172. Si tratta di un enorme privilegio, visto e considerato che nel mondo le entità statuali sono 182. E se, ad esempio, fossi indiano? Senza visto potrei entrare solamente in 52 paesi. E se fossi iracheno? In 30. E se fossi pakistano? In 29. Siriano? Formalmente in 32 paesi, ma ha poca importanza, perché cinque anni di guerra hanno allontanato le ambasciate e i consolati stranieri e perché i migranti che affollano Libano, Turchia e Grecia non sono né turisti né clandestini senza visto, ma rifugiati di guerra cui spetterebbe un permesso di soggiorno per asilo politico.

Ma questa è un’altra storia. Torniamo al nostro studio, e alla triste attualità. Dal punto di vista della sicurezza, i visti sono una «seccatura necessaria»: consentono ai governi di controllare chi entra e chi esce dai loro confini, e i motivi per cui lo fa. Ma allora perché i paesi europei godono di così tante aperture da parte degli altri paesi del mondo? In genere chi risponde a questa domanda lo fa adducendo il «diverso peso internazionale», la geopolitica. Perifrasi raffinate per abbellire una facile verità: i turisti e gli uomini d’affari occidentali portano soldi; si tratta di un tipo di «clientela» per la quale i tempi e i costi necessari ad ottenere un visto rappresenterebbero un deterrente (è infatti provato che le restrizioni sui visti riducono sia gli scambi commerciali che gli investimenti diretti di paesi stranieri). Ecco perché i paesi poveri tendenzialmente aprono ai ricchi, mentre i paesi già ricchi rimangono chiusi – si parla spesso di «abolizione delle frontiere» come elemento di debolezza, quasi di buonismo europeo, dimenticandosi di specificare che Schengen ha abolito i controlli interni, mentre all’esterno dell’area di libera circolazione – ovvero all’esterno della ricchezza europea – l’Unione è selettiva tanto quanto gli Stati Uniti. A tal proposito, secondo i ricercatori del think tank Cato Institute, eliminando tutti i visti verso gli Stati Uniti le entrate del settore turistico crescerebbero di una cifra compresa tra i 90 e i 123 miliardi di dollari. Se il governo federale non apre è perché quegli introiti non compensano la sua domanda di sicurezza.

In conclusione, la classifica dei passaporti, della «capacità di movimento» delle singole nazionalità, ricalca la classifica della distribuzione della ricchezza mondiale. «Se non hai i soldi stai a casa tua», dice il Mercedes all’autostoppista.

Foto: Jon Rawlinson – Derived from File:Indian visa.jpg, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=9065785