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Economia della felicità

Si sa che per le Nazioni Unite quasi ogni giorno ha un significato. Per decisione dell’Assemblea generale, dal giugno 2012 il 20 marzo è la Giornata Mondiale della Felicità. In previsione di questa ricorrenza, da quattro anni l’Onu pubblica un rapporto «scientifico» sulla felicità nel mondo. Un criterio sui generis, sulla cui oggettività si è discusso e si discute, ma che nasce come risposta provocatoria ad un quesito antico che non smette di assillare gli economisti internazionali: come si misura il benessere delle nazioni?

Essendo oramai acclarato che non si vive di solo Pil, l’Onu ha indicato nella misteriosa felicità umana un nuovo potenziale indice rivelatore. Un indicatore valido perché composito, fatto di redditi pro capite e livelli di corruzione, ma anche di aspettativa di vita, salute, libertà di scelta, cultura, percezione di sé; un indicatore migliorabile ma di buone intenzioni, perché pensato a tavolino per aiutare i governi del mondo nella rielaborazione delle proprie politiche interne.

Se la «felicità interna lorda» di un paese non dipende unicamente dalla sua economia, anche il World happiness report 2016 presentato a Roma il 16 marzo scorso conferma che il portafoglio aiuta a sentirsi meglio. Secondo la classifica di quest’anno, il paese più felice del mondo è la Danimarca, con un punteggio di 7.6 su 10. Seguono la Svizzera (vincitrice dell’anno scorso), l’Islanda, la Norvegia, la Finlandia, il Canada, l’Olanda, la Nuova Zelanda, l’Australia, la Svezia e, fuori dai primi dieci ma in risalita rispetto all’anno scorso, Israele. Gli Stati Uniti? Tredicesimi. La Germania? Sedicesima, davanti al Brasile. E l’Italia? Il nostro paese era e rimane al cinquantesimo posto, dietro l’Uzbekistan e davanti all’Ecuador, con 0.7 «punti felicità» in meno rispetto all’anno passato. Nelle ultime cinque posizioni sono stabili le maglie nere del 2015: Benin, Afghanistan, Togo, Siria e Burundi. Paesi piagati dalla povertà e dalla guerra civile; nazioni, verrebbe da dire applicando una logica distributiva, sulle cui spalle pesa il fardello della felicità altrui.

Dopotutto è una logica relativa a costruire i punteggi e la classifica: perché in materia di felicità i progressi dei singoli paesi non vengono valutati in assoluto ma per comparazione. La pietra di paragone è Dystopia, la nazione ipotetica dove nessuno vorrebbe vivere, detentrice, per ogni variabile, della media dei punteggi minimi.

Quest’anno, per la prima volta, il rapporto sulla felicità ha dato importanza alla misurazione della disuguaglianza nella distribuzione del benessere. Presentando le edizioni precedenti, gli organizzatori avevano evidenziato come la felicità fornisca un migliore indicatore rispetto a singoli criteri misurati separatamente. Il rapporto di quest’anno aggiunge che la disuguaglianza nella felicità garantisce a sua volta una misurazione più completa della disuguaglianza economica in senso stretto. In sintesi, le persone più felici vivono in società in cui la felicità è maggiormente distribuita.

In conclusione, sebbene il nesso tra richness e happiness esca confermato persino dai fantasiosi conteggi dell’Onu, le recenti elezioni irlandesi, in cui il governo è stato sonoramente sconfitto nonostante una crescita del 7%, dimostrano l’esistenza, per lo meno in democrazia, di altri fattori. «La felicità intesa come soddisfazione di vita è una misura sintetica molto importante a cui la politica e i media dovrebbero fare particolare attenzione perché in grado di catturare tutti i fattori che incidono sulla soddisfazione dei cittadini», conferma Leonardo Becchetti, docente del CEIS Tor Vergata, partner italiano del progetto.

Foto: via pixabay.com, CC0 Public Domain