2015-08-24_21

Uno sporco lavoro

Quando gli autori di un’opera di denuncia ricevono minacce e intimidazioni quotidiane da parte degli oggetti delle accuse, la certezza è una sola: il lavoro svolto è di ottima qualità. Quanto sta accadendo a Leo Palmisano e Yvan Sagnet, un professore universitario pugliese e un ingegnere delle telecomunicazioni e sindacalista di origine camerunensi, autori del libro Ghetto Italia, i braccianti stranieri tra caporalato e sfruttamento, non fa che confermare questa teoria.

In realtà per Sagnet le intimidazioni sono cominciate sin dal 2011, quando guidò una rivolta di braccianti a Nardò, provincia di Lecce, per denunciare le condizioni impietose della vita in questi ghetti moderni, e in seguito alla quale il caporalato divenne un reato anche in Italia.

Yvan Sagnet ha raccontato la sua esperienza la scorsa estate intervenendo alla serata pubblica del Sinodo delle Chiese metodiste e valdesi.

Nel frattempo, soprattutto per via della circolazione del libro e del viaggio–inchiesta che contiene, le minacce sono diventate sempre più frequenti. Tra quelle «baracche di legno e plastica, imbianchite dal sole e dalla polvere – come si racconta in Ghetto Italia – , disposte secondo un ordine molto preciso che ricorda troppo da vicino la disposizione dei blocchi nei campi di concentramento nazisti» si muovono interessi di grande portata, che vanno ben oltre il fenomeno del caporalato e il ruolo dei caporali.

Di che tipo di intimidazioni stiamo parlando?

«Da quando abbiamo avviato questa campagna di denuncia contro il caporalato cinque anni fa sono stato oggetto di varie minacce. Vorrei ricordare che abbiamo un processo in corso, l’unico in Europa contro il caporalato e lo sfruttamento nel lavoro agricolo. Da quel momento, da quelle denunce, abbiamo ricevuto minacce costanti, e da quando è uscito il libro le intimidazioni sono aumentate.

Si tratta soprattutto di telefonate anonime e inseguimenti. Siccome la mia attività è fortemente legata al territorio, sono molto più esposto rispetto al passato, quindi quando vado nei campi o nei ghetti dove vivono i migranti devo fare ogni giorno più attenzione. Lì vivono i caporali, ci sono alcune persone connesse alla criminalità che ci minacciano, che ci impediscono di entrare a incontrare gli sfruttati».

Come sta cambiando il vostro modo di stare sul territorio?

«Ultimamente stiamo prendendo delle precauzioni, perché la mia denuncia prima e il libro poi hanno colpito la sensibilità di grossi imprenditori e grossi caporali, tra i più potenti, per esempio in Puglia. Molti di loro sono in carcere in questo momento, ma anche in sede di processo ci stanno mettendo i bastoni tra le ruote in ogni modo. Questo vale per il Salento, da dove è cominciato tutto, ma soprattutto per il Foggiano, dov’è c’è più lavoro e anche più sfruttamento. Lì la situazione è molto più complicata, per cui abbiamo deciso in questo momento di evitare certi luoghi, perché sono quelli da cui partono alcune minacce, come la Capitanata in provincia di Foggia. Lì, dov’è concentrata la maggior parte dei ghetti, ma anche in Calabria, a Rosarno, per il momento devo evitare alcuni posti. Penso però che la nostra denuncia pubblica ci aiuti molto, perché è anche una forma di tutela».

Da un certo punto di vista significa anche che avete toccato un nervo scoperto, avete lavorato bene.

«Sì, quando le persone reagiscono in questo modo significa che stiamo toccando i loro interessi, che sono enormi. L’agricoltura è uno dei settori più pesanti della nostra economia, è il secondo settore, per cui sono molti soggetti che lucrano sulla pelle di questi lavoratori e che vorrebbero che le cose rimanessero intatte. Siamo consapevoli del pericolo che sta dietro a questo nostro lavoro, però non abbiamo scelta: stiamo parlando di un fenomeno che, anche se nelle cronache esiste solo da poco tempo, esiste da decenni, e non è accettabile che nel 2016 ci si trovi ancora di fronte a simili situazioni di schiavitù, caporalato, sfruttamento. Sappiamo che i soggetti che sono dietro a questa cosa sono molto potenti, alcuni sono uniti con la criminalità organizzata tradizionale, però non possiamo rimanere fermi senza fare nulla. Dobbiamo attivare una rete di sostegno, di lotta, che sia il più ampia possibile e coinvolga tutta la politica, che in questo momento è completamente assente. Se lo Stato fosse presente, sia nei luoghi di lavoro sia lungo la filiera, soprattutto nei sistemi di controllo, potremmo contrastare questo fenomeno in modo efficace, però finora non ci sta aiutando e questo ci obbliga a esporci».

Questo ci dice un’altra cosa: noi usiamo il termine caporalato, ma in realtà non descrive correttamente un fenomeno che va ben oltre le figure dei caporali, tocca interessi molto più alti.

«Esatto. Il caporalato è un’intermediazione illecita di manodopera, in molte forme: da quella classica, che ormai è radicata nella cultura di questo paese e che riguarda soprattutto il settore agricolo, a quella nell’edilizia, ormai molto diffusa. Poi abbiamo un caporalato che abbiamo chiamato “di tipo zero”: quello delle agenzie di somministrazione del lavoro, quelle agenzie che appaltano il lavoro per le imprese. Questa è una forma di caporalato legalizzato, perché queste agenzie di somministrazione del lavoro fanno intermediazione, prendono una buona parte dello stipendio del lavoratore e poi si appoggiano ad alcune agenzie di caporali per trasportare il lavoratore. Il caporalato è l’ultimo anello di una catena di sfruttamento che vede al centro le imprese, che anziché assumere direttamente i lavoratori nei centri preposti si servono di questi intermediari, e a uno dei vertici la grande distribuzione e le grandi imprese di trasformazione. Il livello di sfruttamento è più alto, il caporalato è solo una nicchia, ed è per questo che abbiamo anche avviato una campagna di riforma della legge approvata nel 2011 in seguito alla nostra protesta. Quella legge era già, senza dubbio, un passo avanti, ma è incompleta perché punisce solo il caporale. Oggi se si arresta un caporale, ne arriva subito un altro, e tutto questo non penalizza l’imprenditore che sta al vertice del sistema di sfruttamento».

Lei ha parlato del trasporto come elemento sul quale il caporalato si innesta, ma fa parte di un sistema più ampio, che prende la persona nel luogo d’origine e lo porta in un altro, e praticamente la chiude dal mattino alla sera in una prigione. È davvero così centrale?

«Sì, il trasporto è uno strumento fondamentale per il caporale: quando viene richiesto da parte dei datori di lavoro di fornire la manodopera, il caporale ha bisogno di spostare quella manodopera verso i campi, e quindi mette a disposizione del lavoratore dei mezzi di trasporto. È già un’anomalia, perché nei contratti collettivi nazionali del lavoro per legge l’azienda dovrebbe mettere a disposizione del lavoratore i mezzi di trasporto oppure dare dei contributi e degli incentivi ai lavoratori per spostarsi. Le imprese non lo fanno e quindi i caporali sostituiscono le imprese su quella mansione. Ovviamente sono servizi che non sono gratuiti: per esempio, per il caporalato dei migranti, i lavoratori devono pagare cinque euro per ogni spostamento. Il trasporto è uno strumento fondamentale e noi abbiamo chiesto alla politica di rimediare a questa vergogna lavorando con le associazioni datoriali, con le imprese, al fine di dare un sostegno alle imprese che hanno difficoltà a mantenere anche i costi del trasporto, oppure creando un meccanismo per cui questi lavoratori possano raggiungere i posti di lavoro senza il ricatto di caporali. Ci sono dei limiti, manca tutta la parte applicativa e quella della responsabilità di ogni soggetto, ma soprattutto manca l’impegno».

Foto Anna Lami