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Un passo verso un’economia di giustizia

La Camera ha approvato il primo disegno di legge per la promozione e la disciplina del commercio equo e solidale: tra le novità, se la legge passerà anche in Senato, l’istituzione di un Elenco nazionale di questo tipo di commercio, la promozione dei suoi prodotti negli appalti pubblici e altre forme di sostegno. Giovanni Paganuzzi di Equo Garantito, già Assemblea Generale Italiana Commercio Equo e Solidale ne ha parlato con noi.

Equo Garantito ha contribuito a scrivere il testo: il passaggio alla Camera è dunque un successo?

«È stato decisamente un momento importante e sentire parlare nelle aule del Parlamento di una realtà come la nostra, spesso in modi molto alti e con encomio, è certamente un segno di un grande passo. C’è un riconoscimento politico che significa che il lavoro svolto negli ultimi 30 anni ha cominciato a contaminare culturalmente la società».

Quale stato per l’equo e solidale in Italia?

«Nel nostro paese ci sono circa 300 organizzazioni che fanno commercio equo e solidale. Chi in maniera prevalente, chi come attività affiancata ad altre. La caratteristica principale in Italia è quella di essersi diffuso attraverso organizzazioni di base molto radicate sul territorio. In Europa invece si è sviluppato attraverso la grande distribuzione e il sistema viene controllato attraverso dei marchi di garanzia. Le aziende profit che hanno delle filiere caratterizzate dai requisiti del commercio equo vengono venduti nei supermercati, in Italia invece sono le organizzazioni senza scopo di lucro che svolgono la distribuzione al dettaglio e gestiscono le relazioni con i produttori».

Cosa può cambiare con la legge?

«Per chi si occupa di commercio equo e solidale cambia poco, se non dal punto di vista politico, che è certamente molto importante. Oltre al riconoscimento politico, la legge definisce che cos’è questo tipo di commercio, perché molto spesso nell’interlocuzione con le istituzioni non è facile: invece, se si parte da un testo normativo con paletti e criteri, l’ente pubblico interloquisce in maniera diversa. Poi, definisce le organizzazioni: l’aspirazione al cambiamento portata da questi attori, infatti, passa anche attraverso una riflessione molto approfondita sul ruolo che hanno le imprese nel cambiamento verso un’economia di giustizia all’interno della nostra società. Riconoscere che ci sono dei soggetti dedicati a presiedere filiere in cui gli scambi economici avvengono con modalità più equilibrate e più rispettose di tutti i soggetti che partecipano allo scambio produttivo è un primo passo per riconoscere che il sistema dell’economica tradizionale fondata esclusivamente sul lucro non è un sistema perfetto. Possono esservi prodotti, finalità e strumenti che rendono più equilibrato il sistema».

La sensibilità culturale, anche di qualche esponente della grande distribuzione, ha accompagnato il lavoro su questa legge?

«Sì, moltissimo. All’inizio del nostro movimento i prodotti importati erano per militanti: per bere il nostro caffè ci voleva una grande fede. Da questo punto di vista il lavoro che è stato fatto aveva come finalità quella di migliorare l’attività imprenditoriale dunque la qualità della produzione. Questo è stato accompagnato da un lavoro di sensibilizzazione di tipo culturale che ha fatto breccia anche nel mondo della distribuzione ordinaria: il commercio equo è diventato anche un po’ una moda. Questo è un segno di un cambiamento profondo. Riuscire a delimitare un ambito che consenta di evolvere individuando dei soggetti che tipicamente svolgono quella attività. Questo non significa che altri soggetti non posano fare commercio equo, ma è importante che sopravvivano e siano tutelati quelli che si pongono come scopo principale il cambiamento equilibrato e graduale che possa contaminare l’economia tradizionale senza esserne risucchiato. Il rischio del lungo periodo è che le imprese che si fondano esclusivamente sul lucro assorbano le aspirazioni di cambiamento dell’economia solidale».

Anche perché le velocità dei due modelli di mercato sono diverse. È un lavoro quotidiano di mediazione, immagino

«Si, il cambiamento negli ultimi 10 anni è stato di progressiva imprenditorializzazione, di un modello produttivo che dev’essere sostenibile e proponibile. Questo è dunque positivo. Le attività del commercio equo non si esauriscono in un’attività economica e imprenditoriale, fanno anche una attività informativa, educativa, aggregano sul territorio. Questo ha dei costi che rallentano e rendono meno efficiente la parte propriamente economica. Non c’è un confronto ad armi pari con le imprese: da qui la necessità di tutela».

C’è un modo per unire sempre più il profit e il no profit, oppure sarà sempre una questione di scelta?

«Considerando che il profitto c’è anche con l’equo e solidale per la grande distribuzione, altrimenti non seguirebbero quella strada, potremmo dire che sarà possibile cambiare quando si accetterà l’idea che l’economia non è solo a fine di lucro, ma si perseguirà il fine di consentire a tutti di vivere del proprio lavoro e della propria attività, quando non sarà più accettato che un soggetto domini in maniera assoluta una filiera produttiva, ma con interessi composti, laddove i soggetti hanno possibilità diverse».

Foto: jcwait iStockPhoto