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Suffragette, il film

Pochi giorni fa, il 3 marzo, è uscito nelle sale italiane il film Suffragette, presentato lo scorso anno a vari festival internazionali, ma promosso nel nostro paese in occasione dell’ultimo 8 marzo.

Una pellicola fondamentalmente al femminile: la regista è Sarah Gavron e la sceneggiatrice è Abi Morgan. Nel cast figurano ottime attrici tra cui la protagonista interpretata da Carey Mulligan, Helena Bonham Carter e Maryl Streep, presente per un minuto appena ma abbastanza da rimanere come richiamo alla pellicola.

Al temine di una settimana in cui si è parlato e scritto molto intorno alla giornata dell’8 marzo, chiediamo a Gianna Urizio, giornalista, regista e membro dell’Associzione cinefila “Roberto Sbaffi”, di aiutarci a recensire il film.

Quali sono state le sue prime impressioni?

«Subito l’ho trovato coinvolgente, ma pensandoci un po’ su qualcosa non tornava. Improvvisamente mi sono tornati in mente i racconti di Natale di Dickens.

Questo è un film che ha incontrato il favore di molte donne e femministe anche perché riprende un carattere già raccontato anche in Mary Poppins: la madre dei due bambini era una suffragetta che, indossata fascia e camicetta, lasciava i due bambini alle cure della bambinaia; un personaggio un po’ ridicolizzato. Da allora non mi pare che una donna suffragetta sia comparsa in un altro film.

Non solo, questa pellicola ha un vantaggio, ovvero supera lo stereotipo delle suffragette borghesi, che hanno tempo di pensare alla libertà e ai diritti, al voto ecc.. e mette come protagonista un’operaia che lavora in uno dei posti peggiori che potessero esistere: una lavanderia piena di fumi e vapori in cui è stata anche molestata dal proprietario.

Certamente un personaggio storico e realistico, forse un po’ ovvio, che insieme a tutta la vicenda mi ha fatto venire in mente i Racconti di Natale in cui c’è il ricco cattivo, l’operaia buona che, nonostante abbia una apparente felice vita coniugale, per un percorso di solidarietà e di presa di coscienza, si indigna e un po’ casualmente entra nel movimento delle suffragette inglesi».

Qual’è il percorso che porta la protagonista a prendere coscienza della sua condizione?

«Questa donna fa un lavoro terribile ma è concentrata sulla sua vita familiare apparentemente serena; dopo una serie di casualità tra cui il ritrovarsi nel mezzo di una manifestazione, decide di lasciare tutto. Il marito la manda via di casa, va in prigione dove sembra rendersi conto di quello che stava lasciando e pensa di abbandonare il movimento. Ma l’assistere a un nuovo abuso del padrone della lavanderia e spinta anche dal ricordo della madre, morta nello stesso luogo di lavoro, l’assenza di prospettive, la fanno convincere definitivamente. Diventa una suffragetta. La sua famiglia si spezza e suo figlio viene dato in adozione a una famiglia borghese.

La protagonista, Carey Mullighan, è convincente e recita bene ma ha forse un viso anche troppo buono. Nonostante ci faccia vedere attraverso le sue vicende le fasi radicali del movimento, manca il dibattito politico.

Quello che secondo me sparisce dalla pellicola è proprio il tessuto politico della vicenda, per cui, per esempio, l’audizione in Parlamento consiste nella commozione della protagonista che così riesce a convincere i “buoni” presenti in aula. Molto, troppo buonista. Comunque meglio di niente».

Manca la narrazione di una motivazione vera che spinge la protagonista a lasciare tutto per il movimento?

«La motivazione c’è e il film lo mostra, ma sul piano emotivo. Lei ha una serie di emozioni, il disgusto, l’indignazione, che la muovono. Rimane il piano soggettivo della mancanza dei suoi diritti e prospettive e non c’è il dibattito su scelte alternative.

Tutto si svolge sul piano dei sentimenti di una donna buona che però si indigna e quindi rivendica i suoi diritti fino a mettere ordigni esplosivi nelle cassette della posta, tagliare fili telegrafici, piazzare una bomba nella casa di un ministro. Emotività femminile come spinta alla protesta.

Mi sembra buono che le suffragette non siano le borghesi ma anche le operaie che si uniscono, ma mi sfugge qualcosa, mi sono state date solo le motivazioni emotive e non il ragionamento».

In un altro film, Erin Brokovic, donna poco istruita, povera, con tre figli da mantenere, lotta per una causa ma non in modo buonista. Nonostante la sua scarsa scolarizzazione non sono i sentimenti a spingerla a lottare contro l’inquinamento della multinazionale, ma il ragionamento. Certo, anche l’indignazione ma legato a un vero impegno civile.

Che dire del film dal punto di vista tecnico?

«Anche il lato tecnico mi restituisce l’emozione di cui parlavo prima. È un film inglese, fatto bene, ma un po’ patinato e in cui le situazioni sono romanzate. Di fatto sono la messa in scena, il dialogo, la struttura a convincere meno: buono da una parte e cattivi dall’altra, ambientazioni dickensiane, l’oscurità della fabbrica. Tutto sommato il film è buono perché trasmette l’intenzione del movimento ma lo narra attraverso le emozioni di un’operaia buona in un Ottocento patinato e favoleggiato».

Foto By Arthur Wallis Mills (1878–1940) – http://www.bartitsu.org/index.php/tag/suffragettes/, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=18870769