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Le Scritture ci insegnano a non giudicare e a praticare la misericordia

Oggi alle ore 18,30 presso la chiesa battista di Cagliari, in viale Regina Margherita 54, ci sarà la presentazione del volume della pastora e teologa battista Elizabeth E. Green, «Padre nostro? Dio, genere, genitorialità. Alcune domande» (Claudiana, 2015). Intervengono: Cristina Arcidiacono, pastora battista; mons. Mario Ledda; Annarita Oppo, Centro documentazione donne; e Carmen Secchi, psicoanalista. Abbiamo rivolto alcune domande all’autrice del libro.

In una società occidentale come la nostra in cui le relazioni tra donne e uomini sono cambiate e emergono nuovi modi di vivere la famiglia, lei torna a riflettere su Dio Padre. Perché?

«Proprio per il motivo che dice lei. Pongo essenzialmente due domande. La prima è: poiché la condizione delle donne e la relazione tra i generi sono ormai diverse da quelle che avevano dato luogo al femminismo e alla sua analisi del patriarcato, fino a che punto tale analisi (e la teologia che ne è conseguita) è ancora attinente? Non rischia forse di produrre l’effetto opposto al suo scopo originario? La seconda domanda, invece è quasi diametralmente l’opposta. Utilizzando quell’analisi, mi chiedo perché proprio quando si stanno affermando nuovi modi di vivere la famiglia torna alla ribalta la richiesta di una rinnovata autorità paterna come appare nel pensiero, per esempio, di Massimo Recalcati il quale ha avuto una grande esposizione mediatica».

Nel suo libro analizza in particolare alcuni aspetti di Dio Padre attinenti al genere e alla genitorialità. Ce ne può tratteggiare brevemente qualcuno?

«Innanzitutto bisogna dire che l’immagine paterna di Dio è solo uno dei moltissimi modi in cui le Scritture parlano di Dio. Sono ancora validissime le precisazioni fatte da teologhe come Elisabeth Johnson e Sallie McFague: il problema è l’uso esclusivo dell’immagine paterna di Dio (D**) a scapito della ricchezza della testimonianza biblica. In altre parole, l’uso ossessivo di “Padre” per dire D** ci induce a pensare (anche in modo irriflesso) che Dio è maschio. La testimonianza delle Scritture va nella direzione opposta, ovvero ci dice che nessuna immagine verbale o materiale può essere identificata con D** la cui identità è custodita, come dimostra l’episodio del pruno ardente dinanzi al quale sta Mosè (Esodo 3), dal “nome” divino: “Sarò chi sarò”. Quindi, per rispondere alla sua domanda credo che le Scritture sì parlino di una genitorialità divina decisamente sui generis la quale viene detta sia al maschile sia al femminile».

In che termini le Scritture parlano di genitorialità? C’è una differenza di prospettiva tra l’Antico e il Nuovo Testamento?

«Le Scritture parlano di un D** che esercita funzioni genitoriali nei confronti di Israele, a partire dal quale viene letto sia la figura di Gesù che del popolo che si costituisce “nel suo nome”. La psicanalisi ci insegna che tali funzioni sono fondamentalmente due: l’accudimento primario (il venire incontro ai bisogni basilari di nutrimento da parte dell’infante) e la promozione della crescita e dell’individuazione della bambina in modo che diventi una persona autonoma. Poiché per le Scritture l’essere umano diventa veramente tale in relazione con D**, è ovvio che D** assume nei suoi confronti le funzioni genitoriali: troviamo, per esempio, in Osea cap. 11, D** che nutre e D** che insegna a Israele/fanciullo a camminare con le proprie gambe. Tuttavia non è possibile distribuire tali funzioni tra i generi (declinando, per esempio alcune esclusivamente al femminile e altre al maschile). Fondamentalmente è l’Antico Testamento a farci vedere il modo in cui D** esercita le funzioni genitoriali anche se la parola stessa “padre” appare pochissime volte».

Qualcosa cambia nel Nuovo Testamento?

«L’uso del termine “padre” subisce un’impennata notevole nel Nuovo Testamento, soprattutto nei vangeli di Matteo e Giovanni, dovuta al fatto che Gesù viene inteso come “Figlio”. Si dovrebbe riflettere sul fatto che l’importanza della figura di Dio Padre nel Nuovo Testamento non sta tanto nel rapporto del singolo col divino né nell’essenza (per così dire) stessa di D**, quanto nel tipo di rapporti che dovrebbero caratterizzare la comunità di credenti, la nuova “famiglia” che Dio suscita intorno a Gesù».

Qual è stato l’atteggiamento delle chiese cristiane rispetto a questi testi?

«Come ho detto, non c’è dubbio che sia stata fatta una lettura parziale dei testi biblici (i quali sono nati in società patriarcali e sono androcentrici di per sé) per favorire l’emergere di un Dio declinato esclusivamente al maschile. Rimane anche fondamentale la tesi elaborata da Schüssler Fiorenza sulla patriarcalizzazione della chiesa. Gesù, per esempio, dice molto chiaramente che nella famiglia che egli chiama ad essere non ci sono padri e che non bisogna chiamare nessuno sulla terra padre. Parole che sono state ampiamente disattese. Qui l’idea di Dio Padre serve a garantire la fondamentale uguaglianza di tutti gli esseri umani. Tuttavia quell’“uguaglianza” non può essere compressa in un maschile che si finge neutro: il testo biblico specifica che nella nuova comunità ci sono “fratelli e sorelle”. Che la chiesa sia una “comunità di donne e uomini” composta non solo di fratelli ma anche di sorelle che entrano in “relazione di differenza” gli uni con le altre, non è ancora penetrata nella coscienza delle chiese, le quali continuano a pensare in termini di “fratelli” (che in qualche modo “includono” le sorelle). Possiamo e dobbiamo parlare, quindi, di una questione non più femminile bensì maschile».

Nell’acceso dibattito che sta accompagnando l’iter del ddl Cirinnà appaiono fronti contrapposti che si riflettono spesso anche nelle chiese. Le Scritture possono offrire una pista di riflessione che faccia uscire da questo tipo di polarizzazioni?

«Rispondendo a una domanda simile, Cristina Simonelli – scrivendo su un’edizione speciale di Adista sulle donne uscita proprio per l’8 marzo – cita il rifiuto da parte dell’uomo presentatosi a Giosuè di rispondere alla domanda: “Sei tu dei nostri, o dei nostri nemici?”. Mettere Dio nell’equazione come fa Giosuè ci impedisce di dare risposte semplici a domande complesse. Detto ciò, elenco solo alcuni elementi della testimonianza biblica che potrebbero rivelarsi attinenti. Innanzitutto l’ampio materiale che le Scritture forniscono per sfatare l’idea della famiglia cosiddetta “tradizionale”: pensiamo alla famiglia come clan dei tempi dei progenitori di Israele o alla famiglia della missione paolina che – sotto il capofamiglia – includeva oltre alla moglie tutte una serie di persone in un ordine rigidamente gerarchico (figli e figlie, eventuali parenti non sposati, artigiani al servizio nonché schiavi e schiave). Oppure ricordiamo le famiglie fatte di sole donne (Rut e Noemi, Marta e Maria, forse la donna sirofenice e sua figlia). Mi sembra evidente che Gesù, invitandoci a “odiare” padre e madre metta in questione i legami di sangue spesso (ma non sempre) alla base della famiglia per costituirne un’altra basata sulla sua parola: “ecco mia madre e i miei fratelli!”. D’altronde nell’Antico Testamento Dio non si fa prigioniero delle regole patriarcali: Abramo deve lasciare la casa del padre; Dio ostinatamente preferisce il secondogenito e favorito dalla madre (Giacobbe) al primogenito Esaù. In altri casi, Dio si cala nelle usanze dell’epoca per assicurare un futuro al popolo attraverso il levirato (tipo di paternità surrogata), e anche la maternità surrogata non è sconosciuta, come dimostra almeno il caso di Agar o di Bila e Zilpa. Le Scritture, dunque, offrono varie piste di riflessione, e nel Nuovo Testamento viene sottolineata l’assoluta uguaglianza di ogni essere umano a prescindere dai diversi marcatori sociali di cui è portatore e portatrice: “davanti a Dio non c’è favoritismo” (Rm 2, 11) né “distinzione” (Gal. 3, 28). Per concludere, direi che le Scritture intendono la vita in tutta la sua complessità come dono, ci insegnano a non giudicare, e a praticare la misericordia».