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Cinque anni dopo Fukushima

L’11 marzo 2011 un sisma di magnitudo 9.0 con epicentro al largo della costa settentrionale del Giappone scatenò lo tzunami più potente della storia del paese (il settimo mai registrato dall’uomo sul pianeta). Onde alte dai dieci ai quaranta metri raggiunsero la costa alla velocità di 750 chilometri orari, le oscillazioni del mare impiegarono più di 72 ore per rientrare a livello “tempesta locale”. 15.000 i morti accertati, 5.000 feriti e altrettanti dispersi, per un totale di più di 30.000 vittime.

Ma il maremoto del Tohoku – questo il nome della regione nord-orientale del Giappone – è passato alla storia come il disastro di Fukushima, uno dei “distretti nucleari” del paese, dove risiedevano ben due centrali: Fukushima Dai-ichi (Fukushima I) e Fukushima Dai-ni (Fukushima II). A un’ora dalla prima scossa, un’esplosione provocò il crollo di parte delle strutture esterne sul reattore numero 1 di Fukushima I. Il giorno dopo lo stesso avvenne sul reattore numero 3. Il livello dell’acqua stoccata negli impianti di raffreddamento scese al di sotto dei minimi di guardia; per evitare il surriscaldamento dei reattori si decise di irrorarli con acqua di mare e acido borico (i cui vapori diffusero nell’atmosfera ioni radioattivi di iodio 131, prodotto della fissione di uranio e plutonio). Nei giorni seguenti gli incendi coinvolsero anche i reattori 3 e 4, mentre la radioattività crescente rendeva mortale l’accesso dei tecnici inviati a riprendere il controllo dei reattori. 110.000 persone furono evacuate nell’arco di 30 chilometri dalla centrale. Pagando un’ulteriore prezzo umano, i contenitori primari dei reattori interessati dagli incidenti resistettero alle esplosioni e al surriscaldamento. La stessa Agenzia per la sicurezza nucleare del Giappone attribuì agli incidenti di Fukushima il massimo livello della scala internazionale INES (International Nuclear and Radiological Event Scale): livello 7, incidente catastrofico. Unico precedente storico: Cernobyl 1986.

Cinque anni dopo il disastro, qual è la situazione umana e ambientale? Purtroppo, secondo il quotidiano britannico «The Guardian», non c’è da stare allegri.

A preoccupare maggiormente l’Istituto internazionale di ricerca per smantellamento nucleare (Irid) è il primo reattore di Fukushima I. Ma il lavoro di rimozione del combustibile fuso – un’operazione che nessun operatore nucleare ha mai tentato – è appena cominciata. Lo stesso Naohiro Masuda, ingegnere capo della Tokyo Electric Power Company (Tepco) cui il governo giapponese ha affidato la messa in sicurezza dell’area, ha ammesso di non sapere ancora con certezza dove si trovi il materiale da rimuovere. «Sappiamo che il combustibile si trova allo stato solido di arresto freddo – ha dichiarato al Guardian – ma nessuno ha mai fatto quello che stiamo facendo noi, dunque il profilo temporale su cui lavoriamo è di 30-40 anni. Sono coinvolte così tante persone che sarebbe sbagliato alterare le tempistiche per un capriccio. Abbiamo stabilito un obiettivo e dobbiamo dimostrare di possedere l’ingegno per raggiungerlo, senza prendere scorciatoie».

In prossimità dei reattori le radiazioni sono pericolosamente alte, e la tecnologia necessaria per inviare robot sotto terra deve ancora essere sviluppata (l’anno scorso il primo tentativo andò a vuoto). Eppure Tepco non è in ritardo sulla tabella di marcia dettata dal governo, che ha fissato la data d’inizio delle «pulizie» al 2021, preventivando 20 miliardi di dollari di costi totali.

Ma sui piani del governo non mancano le voci critiche. Secondo Shaun Burnie, specialista di nucleare presso Greenpeace Germania, il programma di smantellamento non sarebbe che un progetto politico, un tentativo di tranquillizzare l’opinione pubblica sul fatto che il Giappone si stia realmente riprendendo dall’emergenza nucleare. «L’idea che la rimozione dei detriti radioattivi inizierà nel 2021 non è realistica, semplicemente non accadrà. La tabella di marcia si basa su considerazioni politiche: l’obiettivo è dare l’impressione che le cose stiano tornando alla normalità per indebolire le opposizioni al riavvio dei reattori nucleari. Nessuno sa esattamente quanto tempo ci vorrà, ma si tratta di decenni, e decenni, e decenni».

L’attuale messa in sicurezza di Fukushima I è dipendente dall’acqua che viene costantemente pompata nelle cantine del reattore per evitarne il riscaldamento. Il metodo si è dimostrato efficace, ma ha portato ad un accumulo di enormi quantità di acqua contaminata stoccata in serbatoi immensi, che coprono le vaste aree disabitate del distretto di Fukushima. Tepco tratta l’acqua radioattiva, ma non è comunque autorizzata a scaricarla nell’Oceano Pacifico. Il sito si sta così avvicinando alla sua capacità massima di stoccaggio.

Un problema che riguarda da vicino la secondo priorità governativa: quella del progressivo ripopolamento delle città e dei villaggi classificati come abitabili. Se buona parte dell’area si è trasformata in discarica radioattiva, il governo conta sul progressivo rimpatrio nei villaggi fuori pericolo: per questo ha già iniziato a tranquillizzare la popolazione sulla bassa intensità delle radiazioni residue. Delle 160.000 e più persone costrette ad abbandonare le loro case, 100.000 sono ancora sfollate (tra cui 10.000 bambini). Un sondaggio pubblicato alla vigilia del quinto anniversario del disastro ha mostrato che due sfollati su tre non nutrono speranza di ritorno.

«È sbagliato che il governo dica “tornate a casa” e ritiri gli ordini di evacuazione, senza però revocare lo stato d’emergenza nucleare», ha dichiarato il settantenne Miyako Kumamoto durante una manifestazione di protesta organizzata a Tokyo.

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