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«Miei cari amici europei»

Di Alice Anzivino, osservatorio MH sulle migrazioni mediterranee

Ndama è un ragazzo senegalese di 22 anni. Bussa alla porta del nostro ufficio di Lampedusa per poter utilizzare internet per contattare la famiglia, gli amici. Ma come per molti altri ragazzi, attraversate le frontiere, i suoi account vengono bloccati.

Torna a trovarci il giorno dopo, con una lettera indirizzata a tutti noi: “Miei cari amici europei”.

Così ci racconta una storia, “la storia vera, reale” sottolinea, la storia che lo riguarda e che riguarda molte persone che come lui stanno affrontando viaggi estenuanti, inseguendo la vita, quando le uniche due scelte sono o morire o l’Europa.

Con lucidità e consapevolezza, con la sua lettera in mano, a voce alta, seduti sul muretto di un piccolo parco giochi di Lampedusa, inizia il suo racconto.

«Miei cari amici europei». Il suo viaggio lo vede partire da Agadez in Niger, dove gli arabi gestiscono le auto per raggiungere la Libia. Su auto che possono ospitare dalle 8 alle 10 persone ne vengono fatte salire 27-30: ogni persona ne ha una incastrata tra le gambe, una sulla destra e una sulla sinistra. «Niente ti protegge, ti tieni a dei bastoni e ci sono persone che fanno un viaggio di tre, cinque giorni. Si fanno pause nel deserto sotto il sole, senza cibo né acqua, si dorme senza coperte, senza nessuna certezza».

Racconta che qui iniziano a perdere i loro pochi beni, costretti a consegnare soldi e cellulari alla polizia. «Non hai diritto di rifiutare, se lo fai ti percuotono o ti fanno scendere dall’auto e tu rimani là», nel deserto.

Comincia la loro perdita di identità, vengono distrutti passaporti, patenti, carte d’identità. E contemporaneamente inizia la loro deumanizzazione. «Nel deserto stesso vedi cimiteri di persone che sono morte lì. Quello che mi fa male è che se sei morto ti sotterrano male», si ferma un attimo Ndama, ci pensa, ricorda «come un animale morto» e con una mano butta un po’ di terra su una foglia, coprendola solo per metà.

Arrivati a Saba l’unica cosa che vedono è “la maison”, la casa dove vengono rinchiusi per giorni, che contiene «una stanza chiamata prigione». Chi prova a scappare, a reagire viene chiuso dentro questa stanza, senza acqua né cibo. «E’ successo ad alcune persone che quando la stanza è stata riaperta, ne sono uscite morte».

Ndama ci guarda negli occhi, ci dice quanto abbia pianto nello scrivere queste cose.

Si riparte verso Tripoli, passando per Brakk, dove vengono alloggiati in uno spazio vuoto con pareti alte molti metri e senza soffitto.

«Lasci quella città per raggiungere la capitale, con una vettura percorri alcuni chilometri, poi devi aspettare all’interno di una grande buca scavata per terra l’arrivo di una nuova vettura. Ti ordinano di togliere e gettare la giacca, le borse, i soldi, i cellulari, tutto quello che hai. Ti fanno salire sull’auto: una vettura per 19-20 persone viene riempita fino a 30, 37 persone. Quando infine scendi non riesci a camminare per il dolore alle gambe».

Sono costretti a stare in camere e materassi sporchi e puzzolenti. Ci mostra le braccia coperte di piccole cicatrici causate dalle punture di insetti. Il cibo non è sufficiente, viene distribuito pane per dieci persone da dividere in cento, racconta che molti si picchiano per averne un po’.

Lavorano senza retribuzione per persone armate, durante la notte vengono derubati delle poche cose rimaste, oppure vengono rapiti per ottenere un riscatto.

L’ultima tappa è sulla costa, dove rimangono anche settimane. Di nuovo vengono costretti a lasciare quello che gli è rimasto.

Sulla barca ti posizionano «una persona sopra l’altra», imbarcazioni da 90-100 persone riempite fino a 130.

«Qui rischi molto perché le imbarcazioni non sono sicure, sono come una camera d’aria gonfiata», si è consapevoli che basterebbe un anello, una zip a provocare un buco al gommone.

Pensa a sua mamma, ci dice che sarebbe stata lei la vera vittima della sua morte, lui avrebbe perso “solo” un futuro che ancora deve costruire. Ci parla delle mamme che non sanno più nulla dei loro figli, forse rimasti nel deserto o nel Mediterraneo. Mamme e famiglie che aspettano e che aspetteranno forse per sempre.

«Miei cari amici…»… legge la fine della lettera, ma questa volta rivolta a chi vuole partire «voi che pensate di venire in Europa, io vi dico di rimanere nei vostri Paesi», e si rivolge soprattutto a suo fratello.

Ndama ha poi lasciato Lampedusa, è in uno dei tanti centri d’accoglienza. La sua storia è anche e soprattutto una denuncia rispetto a quello che sta avvenendo nel deserto, in una Libia in cui si respira razzismo e nel Mar Mediterraneo che uccide.

Fonte Nev-Mh “Lo sguardo dalle frontiere”