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-4 al summit Ue-Turchia

La Commissione Junker l’ha definito un «crash test per Schengen». Perché è questa la posta in palio sul tavolo che lunedì 7 marzo l’Unione europea aprirà con il governo turco sulla questione rifugiati. Un tema talmente divisivo da aver allontanato addirittura Germania e Austria. La prima, in taciturna coordinazione con Bruxelles, vorrebbe tendere una mano alla Grecia gravata da un’insostenibile pressione migratoria; la seconda, a partire dalla sua posizione geografica, si è autoincoronata leader dei paesi balcanici non ancora membri.

In un contesto politico lacerato, l’idea che da tempo ha fatto breccia a livello comunitario è che la soluzione risieda in Turchia, il primo paese di transito dei profughi siriani. Già in novembre un accordo tra Bruxelles e Ankara aveva stabilito il ritorno in Turchia dei migranti non bisognosi di protezione internazionale: un provvedimento inefficace, perché la stragrande maggioranza delle persone che provengono da Siria, Iraq e Afghanistan hanno tutto il diritto di richiedere asilo. Stando così le cose – si ragiona a Bruxelles – la soluzione sarebbe quella di trasformare la Turchia in uno “stato terzo sicuro”, in maniera da ridurre i flussi sulle isole dell’Egeo senza venire meno agli obblighi del diritto internazionale. Raggiunto questo obiettivo, si spera che anche gli Stati meno “europeisti”, in primis i neo-membri dell’Est, si convincano del fatto che sospendere il trattato di Schengen non è né necessario né conveniente.

Tuttavia, in politica nulla è gratis, e la domanda sorge spontanea: in cambio di questo servizio umanitario, la Commissione europea cos’ha da offrire alla Turchia? Presto detto: l’apertura di un capitolo nei negoziati di adesione (la Turchia è Stato candidato dal 1999: altri tempi, quelli in cui Ankara sognava l’Europa); una parziale liberalizzazione dei visti per entrare nell’area Schengen (sì, la liberta di movimento in Europa fa gola a chi non ce l’ha); l’aggiornamento dei termini di unione doganale tra Ue e Turchia; e infine tre miliardi di euro cash da impiegare per l’accoglienza ai migranti (purché questa venga attuata secondo lo “schema umanitario” già approvato dalla Commissione lo scorso dicembre). In cambio di cotanto bottino, dal giugno 2016 Erdogan dovrebbe impegnarsi a ri-accogliere su suolo turco i migranti a cui spetta lo status di rifugiato e a creare condizioni tali per cui persone detentrici del medesimo status non sentano il bisogno di lasciare il paese. Tutto questo, a bene vedere, era già stato previsto in un piano d’azione congiunto siglato l’ottobre scorso, ma allora la Grecia non era ancora sottoposta alla tragedia che in queste ore si consuma sulle sue coste.

Funzionerà? Difficile fare previsioni. In passato, durante gli allargamenti, le clausole di condizionalità della Commissione – l’unica vera politica estera dell’Ue – hanno dato grandi prove strategiche. Ma la Turchia di Erdogan non è un “paese candidato” come gli altri: il suo peso demografico e la sua capacità militare – caratteristiche che ben più del dato religioso hanno rallentato il suo percorso d’accesso all’Ue – hanno riorientato in tempi record la sua politica estera. Mentre a Occidente firma protocolli, a Oriente, proprio la Siria ce lo insegna, la Turchia agisce in solitaria come una vera e propria potenza regionale. Da qui nasce un’altra perplessità realtiva al piano europeo: è davvero, il regno di Erdogan, un paese trasformabile in una sicura “piattaforma esterna” per persone richiedenti asilo?  

Foto via Pixabay