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I tempi lunghi dell’accoglienza

In queste ore, i corridoi umanitari realizzati dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (Fcei) e dalla Comunità di Sant’Egidio sono sotto i riflettori dei media nazionali. Dopo l’arrivo della prima famiglia siriana, il 4 febbraio scorso , ieri a Fiumicino sono atterrate altre 93 persone. Ma l’accoglienza dura più di un giorno di soddisfazione: a telecamere spente, dove andranno e cosa faranno queste persone?

Lo abbiamo chiesto al presidente della Fcei Luca Maria Negro, reduce da un’insolita ed emozionante giornata romana: «La festa è stata ieri, ma il lavoro comincia adesso. Come stabilisce il protocollo che abbiamo firmato, per un “congruo periodo” noi siamo tenuti a garantire una vera ospitalità in strutture adeguate. La nostra intenzione è far sì che questi sei mesi non siano mesi di “parcheggio”, dovranno essere produttivi a livello di inserimento, di percorso. Cominceremo con l’insegnamento della lingua, seguirà l’inserimento dei bambini a livello scolastico, dopodiché la cosa più ardua: l’ingresso degli adulti nel lavoro. Solo così, impegnandoci su un’integrazione piena, riempiremo la nostra accoglienza di significato».

Ad attendere le famiglie siriane atterrate ieri sono le strutture che i promotori del progetto ecumenico hanno allestito su tutto il territorio nazionale. Per i 28 migranti a loro carico, la Fcei utilizzerà le stanze di “Casal Damiano”, nel basso Lazio, vicino ad Aprilia, e la Diaconia gli ambienti del centro valdese “Casa Cares”, a Regello, in provincia di Firenze. Federica Brizi, coordinatrice dell’accoglienza Fcei, ha accompagnato ieri sera il proprio gruppo a destinazione: «Ieri è stata la tipica giornata di “assestamento”. Siamo arrivati direttamente dall’aeroporto, abbiamo assegnato le stanze e mangiato tutti insieme».

Casal Damiano, mi spiega Federica Brizi, è un’azienda agricola a conduzione famigliare: «Sonia e Damiano, “i padroni di casa”, hanno aderito con entusiasmo al nostro progetto, ci hanno messo a disposizione tutte le loro stanze. Per i prossimi mesi alloggeranno qui 23 persone. Trattandosi di nuclei famigliari allargati, abbiamo considerato una stanza per famiglia. Noi come coordinamento faremo la spola con Roma, ma sul posto rimarranno costantemente i nostri operatori, i volontari e il mediatore che parla arabo: questa ora è una struttura ricettiva, chi ci ospita fornisce gli spazi e fa da mangiare, ma l’organizzazione e il percorso sono sotto la nostra tutela e responsabilità». Anche per Federica Brizi, la priorità è utilizzare bene il tempo. «Certo, il primo periodo sarà dedicato all’ambientamento e alla soluzione delle pratiche burocratiche: permesso di soggiorno, sanità, residenza. A ciò seguirà un percorso d’inserimento sociale, in prospettiva dislocato anche su Roma». «L’importante – prosegue Brizi, sempre più accorata – è lavorare a partire dalle persone che abbiamo di fronte, tenendo in considerazione le loro caratteristiche, le loro specialità, in poche parole la loro vita “prima” della guerra. L’idea che i migranti, in quanto tali, siano tutti uguali, è l’errore peggiore che possiamo fare. Anche perché, gratitudine a parte, è comprensibile che sul loro futuro non tutti siano ottimisti: abbiamo a che fare con persone sradicate, prima dalle loro vite in Siria e poi dal Libano, dove hanno lasciato amici con cui condividevano il quotidiano».

Già, perché prima che la guerra le trasformasse in caso umanitario, queste persone avevano vite diverse, per attività, abitudini ed estrazione sociale. Illuminanti, al riguardo, le parole di Simone Scotta, che in qualità di operatore di Mediterranean Hope lavora nei campi profughi in Libano.

«”I 93” di cui ora si parla noi che operiamo in Libano li abbiamo conosciuti alla partenza. Si tratta essenzialmente di due macro-gruppi: più di sessanta vengono da Homs e hanno vissuto per quattro anni nel campo di Tel Abbaas nel nord del Libano; una trentina da nuclei sparsi segnalati da altre organizzazioni internazionali, ma sono comunque profughi da più di un anno. Oltre alla diversità delle storie e della provenienza, anche all’interno dello stesso “gruppo migrante” le differenze possono essere profonde: si va dalla famiglia tradizionale, dove vige, ad esempio, una certa concezione della donna, a quella che era la “classe media” siriana, penso ad esempio a Mervat e Yousef, di Aleppo, lei insegnante di matematica e lui falegname: ho visto come lavora il legno e sono rimasto impressionato».

In conclusione, fuori dalla lessicologia dei “protocolli”, la realtà si presenta, come sempre, variegata e difficile. Come emerge dalle parole di chi ha vissuto e vive con le persone che giornalisticamente riassumiamo nell’indistinto della parola “migrante”, l’accoglienza – giustamente celebrata dalle istituzioni – è una buona azione che non dura un giorno. Bisogna ora, come sempre, cercare di stare insieme, di conoscersi.

Foto via Radio Beckwith