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Fuocoammare – Un documentario che ci fa incontrare il reale

Un documentario, Fuocoammare di Gianfranco Rosi, che diventa Orso d’oro al Festival di Berlino. Inusuale. Come il Leone d’oro alla 70ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nel 2014 al documentario, sempre di Gianfranco Rosi, Il sacro G.R.A., che raccontava vite difficili intorno al Grande Raccordo anulare di Roma. Entrambi a fronte di film di fiction presentati a questi festival che costano milioni di dollari o di euro e hanno alle spalle case di produzione con budget da capogiro. Un fenomeno tanto inusuale da chiedersi perché. Gianfranco Rosi, un outsider, un italiano cresciuto in Eritrea, che ha studiato cinema a New York e che da quando produce – sempre documentari – non perde un colpo. Ogni suo film viene premiato in qualunque festival lo presenti. Così fu anche per Below Sea Level, Sotto il livello del mare, del 2008; Il sicario, stanza 164, di fatto un intervista a un sicario messicano.

Fuocoammare è un documentario semplice, che racconta l’arrivo degli immigrati a Lampedusa: lo fa con discrezione ma senza censurare la vista di corpi morti nella stiva di un barcone, asfissiati dai fumi della nafta perché rinchiusi da una botola sigillata da viti, dà voce a un medico, Pietro Bartolo, che cura gli abitanti del posto e che con sobrietà dice che cosa significa accogliere e curare i migranti, o constatarne la morte. Racconta l’isola nella sua vita lenta, sempre uguale, attraverso un bambino, Samuele Pucillo, interpretato da se stesso, solitario eppure legato a un amico con cui costruisce fionde e mira a bersagli, siano le grasse foglie di un fico d’india o uccellini che svolazzano nel cielo; si vedono alcuni interni di case, in una quotidianità inespressa, e spesso appare un solitario conduttore di radio che mette in onda varie canzoni, tra le quali appunto Fuocoammare. Su tutto domina la Marina italiana che intercetta e recupera barconi su barconi in una sfilata infinita di esseri umani allucinati, identificati con numeri. Un rapper nigeriano racconta la tragedia di questi viaggi della speranza, finiti nel deserto, in Libia o in mare.

Tutto qui? Si tutto qui. Una semplicità emblematica, come del resto contenuta nel film documentario Il sacro G.R.A. Allora è legittimo chiedersi perché i suoi documentari colpiscano e vincano premi di giurie internazionali che si emozionano ai suoi film. Una volta mi disse Luciano Barisone, già direttore del Festival della spiritualità di Alba e attualmente direttore del Festival du Réel di Nyon: il cinema nasce come documentario, documentario che racconta il reale, la vita; e proprio così riesce a darci una realtà che la fiction tradirebbe, rischierebbe di rendere triviale, sminuendo o esagerando il fenomeno, comunque falsificandolo. Si direbbe che Gianfranco Rosi abbia scelto il documentario per raccontare il reale «nella sua realtà», e lo fa con un metodo lento che gli consente di identificarsi con chi vuole narrare, fino a coglierne le pieghe più profonde, quelle inespresse, quelle che non trovano le parole per esprimersi. Lo fa con una comunicazione, che come diceva Roland Barthes (Miti d’oggi) è aperta, è un cerchio abbastanza chiuso da non essere ambiguo ma al contempo abbastanza aperto da farti entrare in questa realtà, aggiungendo quello che manca, appunto l’inespresso.

Tutto qui. E allora si riesce a capire l’emozione che ha provocato il film Fuocoammare a Berlino, in cui ciascuno ha messo del suo, ha completato l’opera di Rosi e ne è rimasto avvinghiato, se l’è portato dentro. Di fronte alla tragedia di Lampedusa, che continua a ripetersi all’infinito, di fronte agli abitanti che sono stati investiti da qualcosa più grande di loro, che non hanno scelto né costruito ma, come il mare, sopportato «fino al vomito» (vero del bambino di fronte al mare), noi siamo diventati parte di questa tragedia, l’abbiamo sentita nostra, perché è nostra. E grazie a Rosi che è riuscito a comunicarcela senza slabbrature, buonismi o moralismi, in tutta la sua crudeltà.

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