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La «legge antimoschee» viola la libertà di culto

Aveva suscitato scalpore e preoccupazione, nel gennaio dello scorso anno, la decisione della Regione Lombardia di approvare una legge, subito ribattezzata «anti-moschee», che poneva vincoli urbanistici particolamente restrittivi riguardo all’edificazione di nuovi edifici di culto.

Una legge che andava forzatamente a colpire quelle comunità religiose che ancora non dispongono di adeguati luoghi di culto, perché di diffusione relativamente recente nel nostro Paese, o perché in rapida crescita (vedi comunità musulmane e, guarda caso, di immigrati).

A un anno esatto di distanza anche il Veneto aveva provato a seguire le orme della vicina, con una proposta di legge analoga che affidava ai singoli Comuni l’applicazione dei pesanti vincoli (strade d’accesso, videosorveglianza, parcheggi, illuminazione…) imposti ai richiedendi dei nuovi luoghi di culto.

Anche questa proposta era stata da subito segnalata per la sua incostituzionalità da più parti, e in primis dalla Commissione delle chiese evangeliche per i rapporti con lo Stato e dall’Unione delle chiese valdesi e metodiste. Queste, per voce rispettivamente degli avvocati Ilaria Valenzi e Alessandra Trotta, insieme a rappresentanti della chiesa luterana, delle comunità sikh e di quelle musulmane del Veneto, avevano sottolineato la questione in un’audizione presso la Seconda Commissione del Consiglio regionale, il 12 gennaio scorso.

Ora la Consulta dà ragione alle minoranze, bocciando proprio per incostituzionalità la legge lombarda, e sancendo quanto queste avevano detto: introducendo regole restrittive (e onerose anche dal punto di vista economico), la legge lombarda viola la libertà di culto.

Bollata subito come decisione di una «consulta islamica, complice dell’invasione», così è stata accolta la decisione da Matteo Salvini, come se la tutela dei diritti fosse appannaggio di ogni singola “lobby”, in un’ottica da Far West che fa di ogni gruppo (etnico, religioso, politico…) il difensore dei propri interessi, come se non esistesse quello spazio comune di tutela dei diritti, e in particolare di tutela delle minoranze, che si chiama Stato civile.

La decisione è stata invece accolta positivamente da quanti a suo tempo si erano pronunciati contro queste leggi e contro la mentalità che ne era alla base. Tra queste la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), tra le prime a denunciare l’incostituzionalità del provvedimento con convegni e iniziative pubbliche tra cui la denuncia formale sporta tramite l’avvocato Alberto Fossati, come ha ricordato il suo presidente, il pastore Luca M. Negro, dichiarando all’agenzia stampa Nev: «Una sentenza prevedibile, attesa e comunque benvenuta, che attesta e conferma le nostre ragioni ma purtroppo non risarcisce le comunità di fede che in questi anni hanno dovuto subire una grave limitazione dei loro diritti costituzionali in materia di libero esercizio del culto. La speranza è che questa vicenda sia di lezione a quelle forze che, per ragioni politiche e elettoralistiche, intendono limitare la libertà di culto invocando o approvando norme discriminatorie e lesive di diritti fondamentali sia per gli italiani che per gli immigrati delle varie fedi religiose».

Anche l’onorevole Luigi Lacquaniti, deputato del Pd e membro della chiesa valdese, già intervenuto in proposito nel 2015, ha commentato (ancora all’agenzia Nev): «La sentenza della Corte costituzionale è una sentenza di civiltà, mette in chiaro che in Italia tutte le confessioni religiose hanno pari dignità e che gli esseri umani hanno il diritto inviolabile di celebrare la loro fede in luoghi di culto appropriati».

Foto By Dans-engOwn work, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2128484