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La questione della pena

Cogliendo alcuni degli innumerevoli spunti di riflessione offerti dall’intervista all’avv. Brucale pubblicata su Riforma del 5 febbraio, vorrei approfondire quattro aspetti della questione.

Primo aspetto: la funzione della pena. Il 41bis è definito «vendetta di Stato». Naturalmente pensare che lo Stato si vendichi desta sconcerto, ma l’art. 27 Cost. prevede che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato: ciò non significa che la rieducazione sia l’unica finalità della pena. La pena deve sempre essere per la rieducazione, ma può avere anche altri fini di deterrenza o di difesa sociale. Tra le finalità delle pene forse è anche evitare che le persone si vendichino da sé (ne ruant cives ad armas): non è bello che la pena ricordi la vendetta, però forse è anche inevitabile, finché la collettività non si renderà conto dell’intrinseca inutilità della vendetta. Più lo Stato appare (senza necessariamente esserlo) clemente e garantista con gli accusati e i condannati, più le persone tendono a considerare il sistema punitivo inefficace e a tenersi la pistola nel cassetto. Il nostro ordinamento, garantendo un pessimo funzionamento del sistema, tratta malissimo chi resta impigliato nelle maglie della giustizia, ma offre molte scappatoie e indulgenze a chi ne sa approfittare.

Razionalmente parlando, la rieducazione ha molto più senso della mera punizione, anche per chi commette reati particolarmente gravi, perché proprio dove la spinta a delinquere è più forte serve una controspinta più profonda. Ragionando è chiaro, ma ancora pochi ci arrivano, forse perché il sentimento di vendetta è naturalmente ben radicato nell’essere umano. Perciò quando si combattono le battaglie per i diritti dei carcerati dev’essere chiaro che lo si fa non tanto per fare un favore ai condannati, ma anche perché il sistema sia più giusto ed efficace.

Secondo: la certezza della pena. L’ergastolo ha durata incerta: vero, ma il sistema italiano è zeppo di pene incerte. Un esempio per tutti: il giudizio di prevalenza nelle circostanze (art. 69 del Con. pen.). Per ogni reato è prevista una pena minima e una massima «edittale», entro cui il giudice determina la pena nel singolo caso, secondo criteri di gravità del reato e personalità del reo. Su questa pena si applicano le circostanze aggravanti o attenuanti, che operano anche oltre il minimo/massimo edittale. Dopodiché il giudice può ritenere «prevalenti» le aggravanti sulle attenuanti o viceversa, applicando solo quelle ritenute «prevalenti»: così la pena può essere più alta del massimo o più bassa del minimo per un giudizio di prevalenza, che non offre nessuna prospettiva di certezza. Inoltre esistono attenuanti «generiche», diverse da quelle specificamente previste dal Codice, concesse normalmente con larghezza e spesso prevalenti. Quindi è chiaro che il problema della certezza della pena non è nell’ergastolo (assai più raro), anche se il giudizio di prevalenza normalmente conviene all’imputato e quindi è meno contestato.

Terzo: il favore per le chiamate di correo. La questione dell’ergastolo ostativo è posta nell’intervista come: chi non può collaborare, magari perché si dichiara innocente, è svantaggiato. Ma forse la questione è al contrario: la legge prevede un vantaggio per chi collabora, perché è logico incentivare la collaborazione con la giustizia. Se poi questa sia proficua o meno è un problema che varrebbe la pena di approfondire (si dice giustamente che questa «collaborazione» è «troppo spesso opportunistica delazione»), però è logico che chi testimonia contro i complici venga favorito dalla legge. L’imputato e addirittura il condannato hanno tutto il diritto di protestarsi innocenti, però si condanna chi «risulta colpevole del reato contestatogli oltre ogni ragionevole dubbio» (art. 533 Cod. proc. pen.) quindi la condanna tiene già conto delle dichiarazioni di non colpevolezza dell’imputato, che evidentemente non erano così fondate da insinuare un dubbio ragionevole.

Quarto: le questioni aperte. Il punto centrale, pare di capire, è l’intrinseca irrazionalità dell’ergastolo (che senso ha chiudere il colpevole in carcere per sempre, se il carcere dev’essere lo strumento per reinserirlo nella società?), anche se l’intervista tocca di sfuggita una serie di questioni diverse (l’ergastolo ostativo, i collaboratori di giustizia, il carcere duro etc.).

La questione fondamentale che si deve porre, proprio sulla costituzionalità e sul senso dell’ergastolo, è questa: se la durata della pena detentiva è commisurata dalla legge e dal giudice a una prognosi del tempo necessario per il ravvedimento (in relazione alla gravità del reato ed alla personalità), allora l’ergastolo ha senso quando il reato è talmente grave e la personalità del colpevole talmente problematica da non lasciar prognosticare un ravvedimento in un tempo definito? Oppure, più semplice: se la rieducazione del condannato fosse l’unico criterio da seguire nella legge penale, che ne sarebbe di chi non si ravvede? Si tornerebbe al «progetto Ferri», senza pene ma solo con misure di sicurezza senza un termine definito?

La pena che più tenderebbe alla rieducazione del condannato sarebbe forse, paradossalmente, quella che non lo lascia uscire finché non è rieducato: è questo che vogliamo? Direi proprio di no.

Bisogna interrogarsi sul concetto di rieducazione e capire se significa fare il lavaggio del cervello ai condannati oppure far conoscere loro un modo di vivere diverso dal crimine. Quando però questo sistema non funziona, quando la proposta rieducativa è respinta dal condannato, che cosa bisogna fare? Non ho una risposta, ma mi sembra un punto centrale. Certo non si può costringere il condannato a farsi rieducare, ma se non si ravvede resta un pericolo per gli altri: è una domanda scomoda, fastidiosa, ma bisogna farsela.

Sembra in fondo che il problema non sia l’ergastolo, ma piuttosto il carcere in sé. Nel nostro codice la reclusione è sempre in carcere (salvo poi detenzione domiciliare o simili nell’esecuzione), mentre forse avrebbe senso prevedere formule alternative più differenziate, soprattutto per i soggetti meno pericolosi (perché è più facile per loro pensare un’alternativa). Esempio quotidiano: il giovane delinquente, già consapevole di tutte le indulgenze concessegli dall’ordinamento, viene rinchiuso in un istituto di massima sicurezza, dove ozia e conosce altri professionisti del crimine che rafforzano spesso la sua spinta a delinquere. Proprio perché il carcere così com’è oggi tende ben poco alla rieducazione, il carcere a vita a maggior ragione non serve per nulla alla rieducazione intesa come ravvedimento e rientro nella società. Così, quando si dice nell’intervista che va perdonata la zuffa con le guardie penitenziarie, la questione non è «perdonare», perché chi si azzuffa con le forze dell’ordine non è pronto a tornare libero nella società. Il problema è un altro: perché il carcere, che dovrebbe rieducare, l’ha spinto invece alla zuffa?